Caracalè a Procida, l’isola dei (poco) famosi

“Fuitevenne !” La prima volta che ho sentito Edoardo De Filippo incitare i giovani napoletani alla fuga è stato negli anni ’70. Inutile che vi dica quante occasioni ho avuto in seguito per ripensare alla sferzata di Edoardo. Ma Napoli è la città dei mille riscatti, per cui un giorno apri il balcone e con un’ora di motoscafo nel golfo fai rotta verso Procida, l’isola minore, miracolosamente aliena alla mondanità di nani e ballerine: Procida. Passeggiata sul molo, universalmente conosciuto come l’ultimo set di Massimo Troisi, e tavolo prenotato al Caracalè, 31 centimetri dall’acqua.

Non siamo a Ischia, la verve creativa di Nino Di Costanzo non è qui, né mi aspetto i fasti dell’Olivo di Capri, qui il menù stampato è già una conquista. Da dieci anni quelli del Caracalè sono vivandieri attenti, pochi fronzoli ma sostanza quanta ne volete, squisiti abbinamento terra-mare, tre/quattro buone bottiglie, perfino piatti presententi con grazia e gentilezza. E una carta finalmente liberata dagli asterischi del congelamento.

La prima caraffa di Falanghina sfusa accompagna le polpette di spada e melanzane e le alici marinate con peperoni. Spaghetti ora, e viene voglia di indulgere senza risparmio. Polpa di canocchie e pomodoro pachino o se preferite frutti mare e broccoletti. Anche tutti e due, volendo. Sono genuinamente incuriosito dalla ruota di calamaro ripieno alla procidana (ci sono: calamaro, uova, pomodoro e mollica del pane), e per finire sprofondo nel tortino al limone. Sapete, a Procida coltivano dei limoni giganteschi con albedo spesso così, lo chiamano limone-pane, regolatevi voi.

Sulla via (acquea) del ritorno, distirbato solo da qualche gabbiano, mi torna in mente CUORE, pensa un po’. Era il settimanale di resistenza umana, che stilava la classifica dei motivi per cui vale la pena vivere. Non conosco i vostri ma oggi un’idea l’avrei.