Il potere del cibo in The last of us

The last of us non parla solo di perdite e sopravvivenza, ma anche di felicità nelle piccole cose - come una fragola, ad esempio: ecco il potere del cibo in questo telefilm.

Il potere del cibo in The last of us

Ho letto un articolo (di Bettina Makalintal, per eater.com) che esordisce in questo modo: “nella distopia di The Last of Us della HBO, c’è ancora bellezza nel mangiare bene“. Si tratta della medesima affermazione che ho fatto io mentre guardavo gli episodi, ed ecco perché a mio parere vale la pena approfondire l’incredibile potere del cibo in questo telefilm (in Italia su Sky e NOW). Potere in tutti i sensi, e non necessariamente positivo.

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The last of us è tratto dall’omonimo videogame e vede il mondo che, nel 2003, subisce da zero a cento un’infezione globale da fungo Cordyceps. Questo fungo invade corpi e menti, fino a controllarli e a trasformare completamente gli esseri umani da semplici infetti a ospiti dello stesso, zombi connessi tra di loro il cui unico scopo è proliferare (come appunto i funghi, le muffe). Dal 2003 passano vent’anni e l’attuale umanità è ridotta a poche unità che sopravvivono come possono, con talvolta dittature militari, talvolta resistenze, talvolta comunità eremite che sembrano vere e proprie sette. Poca elettricità, quasi tutto “in analogico”, scarsità di cibo, torna la caccia, sopravvivono gli alimenti in lattina. Apparentemente l’ultimo elemento da erigere a protagonista è il cibo, eppure il cibo è spesso la chiave che fa quadrare fatti e intenti narrativi.

L’industria alimentare “complice” dell’infezione

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Il Cordyceps è il fungo che ha sterminato l’umanità, e il cibo c’entra eccome perché è stato il veicolo dell’infezione in tutti gli angoli del mondo civilizzato. Lo spiegano chiaramente nel corso dei primi episodi: il fungo è mutato, ha intaccato anche farine e zucchero, e tramite la commercializzazione e il consumo di questi ingredienti basilari (e di cui siamo dipendenti) è arrivato ovunque. Fa riflettere questa cosa? Non lo so, a me sicuramente.

Caccia e cannibalismo

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Non è difficile immaginare che in un mondo tornato ad un livello rurale e di istinti primordiali come quello della sopravvivenza (mors tua vita mea), torni a forza la caccia come unico e plausibile modo per nutrirsi. Non è scontato, tuttavia, concepire il cannibalismo: si vede nel penultimo episodio di questa prima stagione, quando la co-protagonista Bella Ramsey (Ellie) è catturata e finisce in questa setta dove chi muore (e, forse, non solo chi muore) è fatto a pezzi e mangiato. Spacciato per cervo ai membri della comunità, che fan finta di non sapere (“cervo, eh? oooooook…”).

Ma anche cibo in latta

Non è difficile immaginare nemmeno che l’unico cibo industriale che potrebbe avere speranze di sopravvivenza (come insegnano tutti ma proprio tutti i film apocalittici/catastrofici) sia quello in lattina. Non parliamo solamente di legumi e carne in scatola, ma anche di “junk food” come pasta in lattina: da noi in Italia non credo esista ma negli States esiste ed è acquistabile in tutti i supermercati. Nel caso di The last of us si vede una pasta in lattina specifica: i ravioli con manzo e pomodoro della marca Chef Boyardee. La vera domanda è: una pasta ripiena, in lattina, quanto potrà mai essere commestibile dopo ben 20 anni di giacenza in un mondo allo sbaraglio? A mali estremi, estremi rimedi purtroppo o per fortuna di Pedro Pascal (Joel) e Bella Ramsey.

La bellezza nel mangiare bene

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Il terzo episodio di The last of us si discosta completamente da tutti gli altri. Si intitola “Long, Long Time” e mostra – tramite tante parole non dette – un piccolo mondo a parte dove la solitudine ha comunque preso il sopravvento ma è stata abbracciata, e non respinta. Si vede Bill (interpretato da Nick Offerman) nella parte di un burbero e survivalista quarantenne che si nasconde nel proprio bunker in attesa che il villaggio (Lincoln, Massachussets), nel 2003, sia evacuato dai militari. Qui, Bill non solo sopravvive ma vive, e vive bene, con telecamere di sicurezza, interi negozi a disposizione per lui, piccoli ritagli di orti qua e la e nel vicinato fatto di case vuote. Bill caccia e non si limita a trangugiare più cibo che può, data la situazione: lui cucina pietanze sopraffine, nappando selvaggina, sfumando con liquori, impiattando in servizi eleganti e consumando tutto a lume di candela. Spero non sia sfuggita la potenza dietro questo gesto quotidiano di amore per se stesso, di coccola, di raccoglimento e di come il buon cibo e il mangiare bene abbiano la forza di farci aggrappare alla vita e alla civiltà come poche altre cose.

Fatevi una cantinetta di vini

Bill, in casa propria, è ben organizzato: ha stoviglie, ha pentole, ha fuochi, ha orticelli… e ha una cantinetta di vini. Dopo quattro anni di solitudine nel suo piccolo mondo incontra Frank, un uomo non infetto che sta scappando e cercando riparo e cibo. Bill lo accoglie e, pur non conoscendolo e pur essendosi incartapecorito nella sua stessa solitudine, gli prepara un pranzo stellato: coniglio (in umido, credo) con verdure e tuberi di contorno, e in abbinamento un Beaujolais-Villages Louis-Jadot.

Ho voluto approfondire e ho chiesto una mano al mio collega Luciano Fiordiponti, che mi ha confermato la plausibilità riguardo tale scelta di vino. Parliamo di un vino francese non pregiatissimo (un Borgogna, della parte meno nobile) ma dignitoso, un vino d’annata ma non da lungo invecchiamento: è consumato dopo almeno 4 anni in cantina, al limite della sua vita potenziale dunque, e tanta stima per gli autori in questo caso per tale finezza. Servito con un coniglio in umido ha il suo perché, dato che si tratta di un vino profumatissimo e floreale, con sentore di frutti di bosco. Tutto molto bello, molto preciso e molto puntuale insomma. Il cibo per Bill e Frank, che da quel momento formeranno una coppia molto innamorata, li accompagnerà fino al loro ultimo istante di vita insieme: decideranno di togliersi la vita contemporaneamente, a tavola, bevendo un vino carico di sonniferi. E anche questa scena straziante è tutt’altro che morte, è più vita della vita stessa.

Il posto delle fragole

Rimaniamo ancora su Bill e Frank e il cibo. Nelle avversità, nella disperazione, nella consapevolezza di far parte di un mondo in declino, sono le piccole cose a farci stare con i piedi saldi a terra e al contempo con lo spirito alto nel cielo. Piccole cose potentissime, apparentemente insignificanti: una fragola matura, ad esempio. Frank regala a Bill un piccolissimo angolo di orto in cui è riuscito a far crescere le fragole (i semini li ha “contrabbandati” grazie al protagonista Joel, loro amico). E, come nel film di Bergman, anche questo Posto delle fragole tutto loro rappresenta ciò che fu, i ricordi del mondo-di-prima, ma anche un presente in cui vale la pena credere rimanendo insieme.

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