Le sagre di paese si stanno gentrificando

Le sagre di paese, baluardo di un'identità non omologata, fanno hype e forse fin troppo. E il risultato, in caso non l'abbiate notato, è sotto i nostri occhi.

Le sagre di paese si stanno gentrificando

Le sagre di paese sono l’ultima cosa che ci aspettavamo di vedere sottoposta a un processo di gentrificazione. Eppure, anno Domini 2025, sta succedendo anche quello? Zero nostalgia da queste parti, ma le sagre sono (o forse erano) una delle poche espressioni residue di un’Italia pre-moderna e non omologata, in cui si mescolano inestricabilmente autenticità e squallore, prodotti genuini e raccolta indifferenziata, porzioni abbondanti e file senza alcuna logica, senso di comunità e musica dimmereda – officiata dalla piccola celebrity locale al pianobar o peggio dall’artista mezzo famoso negli anni ottanta e da allora su un interminabile, penosissimo viale del tramonto. Le sagre sono l’ultimo baluardo della resistenza (involontaria) alla pialla del tardocapitalismo. O forse erano.

Su Instagram seguo – segui anche tu – un account che si chiama sagrebrutte: raccoglie poster surreali fatti con tutta evidenza da miocuggino ma soprattutto titoli di manifestazioni che sembrano usciti dalla penna di un comico fallito: Sagra della Ficamaschia, Festa del Buco Incavato, Braciami Ancora… Bene, a un certo punto ho incominciato a notare che sui poster, quando c’è la data, è quasi sempre riferita a un anno passato, anche da parecchie stagioni. Capiamoci, non voglio dire che la pagina insta ci stia raggirando, non è mica un giornale con l’obbligo dell’attualità, o un account che segnala eventi e appuntamenti. Sul momento ho pensato a un caso, ma poi sono andato in vacanza. E ho iniziato a girare per sagre.

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Le trasformazioni naturalmente avvengono in maniera graduale, ma ci sono momenti in cui alcuni fattori si coagulano e creano un punto di svolta visibile: così qualche tempo fa avevamo notato come la ristorazione del Cilento si fosse milanesizzata di botto, o quasi. E gli anni successivi (già tre? Ammazza come passa il tempo quando ci si diverte!) ci hanno dato purtroppo ragione. Quest’anno, sempre partendo dal Cilento ma non limitandoci a questa zona, captiamo questo altro trend, che se volete è un po’ l’onda lunga di quello, il sequel brutto: la gentrificazione delle sagre.

Quali sono infatti le caratteristiche della gentrificazione? Ripulitura di facciata, modernizzazione uniformata dell’offerta, innalzamento dei prezzi, invasione e iperaffollamento. Applicato a borghi e quartieri, oggetti per i quali viene solitamente usato il concetto, questo si traduce in: sommaria riqualificazione urbanistica, nascita di negozi “tipici” in fotocopia, aumento incontrollato di affitti e costo della vita in genere, turistificazione. E applicato alle sagre?

Le caratteristiche della nuova sagra

sagra cuntaria

L’imbellettatura di facciata, la prevalenza dell’estetica, parte proprio dai suddetti poster e volantini. Per carità ripeto, lungi da me la nostalgia per lavori fatti con word, a botte di comic sans e inserisci immagine. Però qui siamo alla fighettaggine degna del più raffinato festival nu-jazz: finalmente le Pro loco hanno cambiato generazioni di grafici, o c’è lo zampino dell’intelligenza artificiale? Sta di fatto che da un anno all’altro molti poster sembrano usciti dalla stessa mano, e soprattutto sembrano promettere qualcosa di completamente diverso dalla solita sagra come l’avete conosciuta finora. E purtroppo la promessa è mantenuta.

Il secondo, e ben più grave punto, è l’uniformazione dell’offerta gastronomica. Ora, qui c’è da dire che una certa differenza è sempre sussistita. Da un lato quelle sagre che amano vincere facile: un primo caratteristico locale (ad es. in Cilento fusilli al ragù di maiale), salsicce e altre carni alla brace e patatine, salumi e formaggi tipici. Dall’altro quelle che si sforzano di recuperare piatti della tradizione povera (sempre esempio cilentano, ma ognuno di voi può trovare il suo: polpette di uova e formaggio, foglia e patate, melenzane imbottite). Il fatto è che a un certo punto questa cosa è diventata di moda, e quindi tutti a buttarsi sugli stessi due o tre piatti, con interpretazioni spesso dubbie. Ma soprattutto è successa un’altra cosa: l’invasione di specialità gastronomiche alloctone. Ancora una volta, e che sia l’ultima, devo ribadire che qui non siamo autarchici sostenitori delle barriere culturali, però insomma è possibile che io questa estate abbia mangiato più arrosticini che nel resto della mia vita?

L’arrosticino – buonissimo, e anche insolito perché chi mangia mai carne di pecora? – mi pare l’emblema di questa uniformazione. È un trend gastronomico – appartenente a quella ondata di cibi “tradizionali” del centro Italia che ha portato tutti noi a diventare esperti di carbonara e gricia, cacio & pepe e amatriciana. Certo ha dalla sua il fatto di essere un comodo street food (facile da mangiare, e forse anche più veloce da cucinare rispetto ad altre carni grigliate): gli spiedini infatti vengono ormai serviti in un cuoppo, con un brivido di contaminazione geografica. E a proposito, un’altra cosa che ho visto diffondersi a macchia d’olio (di semi), è il famigerato cuoppo fritto di pesce, calamari e gamberi anche alla sagra della castagna lessa 1700 metri s.l.m.

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Di conseguenza, ma era proprio necessario?, sono anche aumentati i prezzi: il suddetto cuoppo di arrosticini, in numero di sette, sta a dieci euro. La frittura di pesce idem, ed entrambi non sono che degli antipasti, che non sfamano neanche un ragazzino di 10 anni, soprattutto se ha dovuto aspettare fino alle 10 di sera per addentare qualcosa. Porzioni piccole e prezzi alti, cioè tutto il contrario di ciò che storicamente offriva una sagra: e che storicamente veniva compensato da lunghe attese e posizioni scomode. Il fatto è che mo queste ultime condizioni non sono affatto cambiate! Le principali modalità organizzative sono infatti due: o arrivi, fai i biglietti con quello che vuoi, ma per ordinare devi aspettare che si liberi un tavolo, e sono problemi tuoi trovarlo su tutta l’area della sagra, puoi rischiare di puntare su quello sbagliato oppure rompere i cabasisi a ogni famiglia chiedendo Ma state per finire? Oppure quella della sagra diffusa, con gli stand sparsi per il paese, dove ognuno fa due o tre tipi di cibo, sicché per apparare a un pasto completo devi sottoporti a un percorso a tappe, fatto di molte file e di molte attese; e alla fine – o tra l’una e l’altra – adattarti a mangiare seduta su uno scalino, o proprio in piedi.

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Nulla di scandaloso, ripeto, se non fosse in cambio di prezzi e porzioni (ma non sempre qualità) da ristorante gourmet. La terza modalità organizzativa è infatti proprio quella del ristorante: arrivi, lasci il nome e il numero di persone, quando si libera un tavolo ti chiamano loro e ti portano il menu. Prossimo passo, telefoni da casa prima di metterti in macchina, o prenoti online qualche giorno prima?

Simile transizione la sta vivendo il bere: il vino della sagra è sempre stato rosso, abbondante e tendente all’aceto. Ma da un po’ si vede l’alternativa del bianco (a quando l’orange?), e la vendita solo al bicchiere (non ancora definito calice per decenza, ma non mi stupirei). Mentre in qualche sagra più raffinata spunta la carta dei vini in bottiglia: selezionatissime cantine locali, per carità ottima iniziativa, ma ricarichi ancora una volta da ristorante.

Infine, ultimo punto: folle immani di gente che si riversano nei pochi giorni riservati a ogni sagra, rendendo un calvario quella che era un’esperienza divertente. Qui mi rendo conto che c’è un dilemma: le Pro loco dovrebbero puntare ad avere meno gente? E in che modo, alzando ancora i prezzi, o abbassando la qualità? La soluzione è difficile, quasi quanto parcheggiare in salita nel gomito di un tornante a 4 km dall’ingresso del paese.

Capitolo a parte meriterebbe la musica: quasi scomparso il pianobar di zio Peppino, o la riesumazione del settimo classificato a Sanremo giovani 1987, è subentrato l’avvicendarsi di tre o quattro gruppi new folk, che nella maggior parte dei casi ripetono lo stesso repertorio finto tradizionale, un mix ripulito di pizziche e tammurriate senza un po’ di originalità, né di sangue vivo.

Una sola cosa sembra immutata, immutabile: la difficoltà a trovare casse che accettino il pagamento con bancomat. È il contante l’ultimo baluardo della resistenza?