Parlami d’amore ragù: teoria e pratica della ragùterapia

Parlami d’amore ragù: teoria e pratica della ragùterapia

La mia idea di comfort food è il ragù della nonna, due giorni di odori e mestoli di legno appoggiati alla pentola di coccio.

Parlare qui e ora della ricetta del ragù, equivale a morte certa e insulto preventivo, o forse potrei salvarmi e muovere le vostre coscienze culinarie alla compassione tipica che si prova per l’emigrata a Milano. Per completare il quadro cito anche qualche take away cinese di troppo, insalatone del bar, hamburger, brunch domenicali simili a tortura ed ecco che potrete capire perché ho bisogno di ragù qui e ora.

[related_posts]

Per dare una definizione di ragù basta fare un esperimento. Prendete un campione di cuochi o solo mangiatori professionisti e metteteli intorno a un tavolo, ponete la fatidica domanda. Fatto? Ora divertitevi ad assistere, come ho fatto io, alla peggiore rissa sul cibo mai vista. Il tema “carbonara” a confronto sembrerà un simpatico scambio di battute.

Faide e schiaffi, lancio di pomodori acerbi, prugne secche infilate nelle orecchie e un’unica granitica certezza: neanche nella stessa città, stesso quartiere e stessa via, troverete mai la stessa ricetta di ragù.

Non si tratta di macro distinzioni, bolognese vs napoletano per esempio, si tratta di vita, storia e tradizione. Non esiste una ricetta di ragù. A ognuno la sua.

La mia nonna umbra per esempio, trovandosi nel mezzo del cammin tra l’Emilia Romagna e la Campania ha deciso che il suo ragù doveva essere una buona via di mezzo tra i due. Per scrivere gli ingredienti ci sono volute numerose interviste telefoniche e approfondimenti sul campo. La prima volta che le ho chiesto gli ingredienti per la ricetta mi ha detto: “Vai dal macellaio e compri la carne”. “Sì nonna, ma quali pezzi? Quale carne?”. Risposta: “Quella che trovi, che ti sembra più adatta”. Silenzio, minuto di raccoglimento, altre domande. Ed ecco dopo mesi e mesi gli ingredienti.

400 g di carne di manzo macinata (cartella o girello di spalla),
400 g di carne di maiale macinata (coscia),
100 g di pancetta di maiale,
2 salsicce,
300 g di costine di maiale,
100 g di gallina,
1 kg di passata di pomodoro,
2 coste di sedano,
2 carote, 1 cipolla,
2 dl di vino bianco,
2 cucchiai di concentrato di pomodoro,
1 cucchiaino di zucchero (se occorre),
80 g di parmigiano grattugiato,
olio extravergine d’oliva,
sale

Preparazione.
Mondate la cipolla, le carota e il sedano. Fatene un battuto e tagliate a striscioline la pancetta di maiale.

In una grande casseruola di coccio o di ghisa con un filo di olio fate cuocere il battuto e aggiungete la pancetta, la carne macinata, le costine, il pezzettino di gallina. Fate soffriggere a fuoco medio per circa 10’. Versate il vino bianco e fate cuocere a fuoco vivace per altri 10’. Quando il vino sarà sfumato, unite le salsicce intere e fate cuocere per altri 10’.

Aggiungete poi la passata di pomodoro, il concentrato di pomodoro, lo zucchero se occorre, regolate di sale e cuocete a fuoco lento per 5 ore.

Pasta: le tagliatelle.
Per la nonna e quindi anche per me non esiste altra pasta che le tagliatelle all’uovo, ruvide e non molto sottili. Un’abbondante spolverata di parmigiano reggiano grattugiato e la tagliatella con il ragù è fatta. Segno distintivo: alla fine il piatto deve essere color arancio, pomodoro e olio in un’unica gioia fatta di grasso. Alla dieta ci pensate un’altra volta, non il giorno del ragù, non proprio quella domenica.

Per secondo, la carne del sugo è come una carezza. Il giorno dopo, la pasta scaldata in padella con necessaria crosticina croccante è da lacrime di gioia.

Mia nonna non me l’ha potuto dire perché non lo conosceva, ma una signora napoletana mi ha raccontato un giorno tutto il fascino del verbo “pippiare” o “peppiare”. Ecco una bella definizione di Raffaele Bracale. “PEPPïARE / peppïà che è voce onomatopeica indicante quella fase propedeutica del momento prossimo alla conclusione della preparazione del ragú napoletano, allorché dal fondo della pentola dove è in cottura la salsa di carne e pomodoro, affiorano ripetutamente in superficie delle bolle d’aria che al culmine della tensione si rompono producendo un suono simile a quello che produce chi tira una boccata di fumo dalla pipa. Il toscano traduce in maniera piuttosto imprecisa e superficiale: sobbollire. Un ragú napoletano che sobbollisse e non peppiasse, non sarebbe un vero ragú.”

Ecco che dopo la mia ultima cena invention test preparata in trenta minuti, anche solo raccontare del ragù mi fa stare meglio. La terapia per oggi è finita. Datemi una mano, raccontatemi come fate il ragù così che il profumo possa giungere fino a qui.