Gelato crafty: come le gelaterie cercano di sembrare “artigianali”

Il fenomeno del crafty applicato al gelato, tra basi standardizzate sempre più credibili ed espedienti più o meno creativi. Perché se una legge sul gelato artigianale non c'è, bisogna pur sempre farlo sembrare tale.

Gelato crafty: come le gelaterie cercano di sembrare “artigianali”

La scena del gelato artigianale sta diventando sempre più complicata da decifrare per i consumatori che vogliano godersi un cono o una coppetta un prodotto all’altezza dell’eccellenza italiana nel settore. La mancanza di una legge chiara che inquadri ciò che è artigianale sta creando una zona franca in cui vale tutto, dove gelaterie con l’insegna “artigianale” propongono carrellate di gusti tutti provenienti da cataloghi di basi pronte, in un mix consapevolmente confuso che ci sembra di aver già visto da qualche parte. È il fenomeno del “crafty”.

Cosa significa “crafty”

Abbiamo mutuato il termine dal mondo della birra artigianale, dove con “crafty” si identificano quei prodotti che si comunicano usando concetti e stilemi propri della birra artigianale, pur essendo a tutti gli effetti prodotti industriali o, caso meno diffuso, prodotti che erano nati come artigianali e che continuano ad essere prodotti dopo l’acquisizione del birrificio da parte di un grande gruppo, momento in cui si deve per forza di cose trovare un compromesso tra i grandi volumi e il carattere della birra, con buona pace dei ritornelli d’ordinanza come “la qualità resterà la stessa”.

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Ormai non ci facciamo più caso ma, prima della rivoluzione artigianale, a nessun grande marchio di birra sarebbe mai balenato in testa di basare il proprio marketing -ad esempio- sul luppolo, sia in termini di quantità che varietà, di proporre stili arditi come le IPA, o di includere varie aromatizzazioni, dai cristalli di sale a ingredienti italiani in birre che italiane non sono. Idee inimmaginabili per la GDO di qualche anno fa, e che crollano miseramente nel momento dell’assaggio anche da parte di un palato non proprio allenato.

Un po’ più subdolo è il discorso del gelato, pieno di aree grigie che sarà difficile regolamentare anche quando finalmente si metterà mano a un testo di legge che possa dare ordine nel settore, ma il crafty si sta insinuando anche qui e, esattamente come nella birra, c’è una questione di immagine e una produttiva, e a ben vedere c’è di mezzo un’acquisizione pure in questo caso.

L’immagine del gelato crafty

gelato in carapina

A livello di marketing, la nouvelle vague della gelateria artigianale dura e pura si è da subito identificata con la vetrina da cui spuntavano le carapine, in consapevole rottura con le vaschette popolate da montagne di gelati strutturati per rimanere montati e scolpiti all’infinito, dai colori il più possibile sgargianti e con il cartellino del gusto e le spatole che riportavano fieramente il nome dell’azienda fornitrice delle basi pronte.

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A diffondere su larga scala banconi più minimal e colori meno saturi (vedi l’esempio del pistacchio, passato in poco tempo da verdi brillanti degni della carrozzeria di una Kawasaki Ninja a più morigerate sfumature marroncine) è stato Grom, prima vera catena “artigianale” d’Italia, che ha ben assimilato la lezione Farinettiana e ha saputo comunicare magistralmente questa scelta.

Le carapine come le IPA quindi, simboli di un cambio di paradigma di cui l’industria ha preso nota, agendo poi di conseguenza: Unilever, multinazionale titolare di marchi come Algida e Magnum, acquisisce Grom, che diventa cavallo di Troia dell’industriale nell’artigianale: gli achei escono nottetempo dai pozzetti, e il baluardo è espugnato.

Il gelato crafty: tutt’altro che gusto puffo

coni di gelato

La questione produttiva invece gira tutta intorno all’utilizzo o meno delle basi standardizzate per gelateria. Per chi non le conoscesse, diamo una rapida definizione: si tratta di miscele pre-dosate di ingredienti per la produzione del gelato come latte in polvere, zuccheri, fibre, grassi e altri solidi. Nelle loro versioni più diffuse si aggiungono 50 o 100 grammi di prodotto per litro di latte, e permettono all’operatore di non dover calcolare il bilanciamento della ricetta, dando maggiore costanza al risultato.

Anche in questo ambito, le sfumature sono diverse: dai cosiddetti “neutri” (doverosamente utilizzati tra gelatieri che noi definiamo artigiani), mix di soli addensanti inodori e insapori utili a migliorare struttura e stabilità del prodotto, da usare in quantità omeopatiche e misuratissime, si arriva a ricette finite vere e proprie, a cui aggiungere solo un liquido per poi metterle nel mantecatore.

Una gamma di opzioni che si traduce anche in un’altrettanto ampia differenza di approcci da parte dei professionisti: tra chi cesella per ogni materia prima una base specifica -sia latte o acqua- con una consistenza e testura concepita per esaltarla al meglio, e chi -legittimamente, sia chiaro- mette in macchina fustini di polveri a cui aggiungere solo liquidi, magari per ottenere l’ultimo gusto alla moda (vedi il Dubai Chocolate che maledirete quest’estate), c’è tutto un mondo di sfumature che vanno capite e interpretate.

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Un imprenditore che vuole scalare la propria attività può scegliere di dotarsi di un laboratorio centralizzato con cui rifornire i diversi punti vendita così come scegliere di allestirne uno in ogni suo negozio: preparare (o far preparare da aziende specializzate in pesature e confezionamento) delle basi, sviluppate sulle proprie ricette ed equilibrature non inficerà certo il suo status di artigiano.

Discorso diverso quando, a fronte della dicitura “artigianale” in bella vista sulle insegne e le scelte di design e marketing già affrontate, ci si trova di fronte prodotti interamente realizzati con le basi, pratica decisamente crafty. Se poi in questo caso la gelateria espone anche premi e riconoscimenti è un altro tipo di guaio, ma è pure un altro argomento.

Riconoscerle, a volte, non è difficile: gelati al Kinder Bueno o varie marche di cioccolati, vaschette ispirate a Lucilla (quella che ha una zia che sta a Forlì), biscotti, merendine, e cartoni animati vari, che faranno senza dubbio la felicità dei più piccoli ma non quella di chi cerca la qualità che il termine “artigianale” dovrebbe imporre.

Se la cosa non è così sfacciata, l’assaggio resta l’arma migliore. Perché se i neutri, per definizione, sono indistinguibili al palato, a meno che non vengano utilizzati in eccesso dando al gelato una consistenza simile a quella di una malta cementizia, gli aromi non mentono. Se il vostro cioccolato ricorda più il Nesquik che la massa di cacao, il caffè ha il sapore di quello solubile, gli agrumi ricordano detersivo per piatti e via così, non abbiate dubbi: il gelatiere in questione non ha avuto nessun ruolo nell’elaborare il gelato che state mangiando, e se volete avere la prova definitiva chiedete di leggere il libro degli ingredienti, come vostro diritto, troverete tutto lì.

Un po’ e un po’: la confusione nel gelato che non fa bene agli artigiani

gelato al passion fruit

Mantenendo il parallelo tra birre e gelati crafty, nelle decine di assaggi necessari per redigere la nostra classifica mi sono imbattuto in un altro fenomeno che accomuna i due settori. Locali che, senza grandi questioni filosofiche, lasciano convivere ai loro banconi artigianale e industriale: quasi non ci si stupisce più di pub con interessanti selezioni alla spina che mantengono una “chiara da lavoro”, nomi noti come Guinness o, appunto, qualche prodotto crafty, nel tentativo di accontentare tutti o riequilibrare le marginalità.

Allo stesso modo capita di vedere gelaterie in cui un gusto totalmente opera dell’artigiano, magari con materie prime locali e ricercate e con cui ha pure vinto premi in qualche fiera di settore, si ritrovi di fianco ad un’orgia foodpornara di Nutella o variegature super-pistacchiose, plateale frutto dell’uso di basi pronte: un modo per poter offrire più scelta ad una clientela generalista. Poi c’è il guizzo “creativo”: aggiungere frutta fresca a un gelato tutt’altro che artigianale, mettere in evidenza Presìdi Slow Food qui e là, puntare su gusti più contemporanei e meno pasticciati. I mappazzoni non sono più credibili se l’insegna recita “artigianale”.

La differenza sta nella percezione. La linea di separazione tra consumatori di birre industriali (crafty incluse) e artigianali è più netta, con i primi che diffidano degli intrugli troppo cari tanto amati dagli appassionati e i beer geeks che si ritengono razza eletta rispetto a dei barbari che brandiscono Moretti da 66 cl. Nel gelato tutta questa consapevolezza da parte dei consumatori ancora deve arrivare, con risultati a volte tragicomici che vedono nella stessa coppetta un mix di ingredienti autentici e aromi artificiali, vera bruttura dell’invasione del crafty nelle gelaterie. Ovviamente non si discutono le scelte imprenditoriali dei singoli, ma in una futura legge sul gelato il metodo produttivo dovrà essere il fulcro dell’identità artigianale, stabilendo una differenza tra chi produce tutto in casa, anche in volumi importanti, perché si può essere grandi e artigianali se lo si sa fare, e chi no, con una chiarezza che potrà scongiurare il rischio di un’ulteriore diffusione del crafty nelle gelaterie italiane.