Chi ha paura di Paolo Lopriore, parte seconda: la recensione

Chi ha paura di Paolo Lopriore, parte seconda: la recensione

Paolo Lopriore: uno chef che appassiona e divide l’Italia. Ci eravamo lasciati con una promessa: la prova del budino consiste nel mangiarlo. Ecco che, ligio al dovere, sono stato al Canto della Certosa di Maggiano per assaggiare il budino loprioristico. Relais di grande charme, ambienti confortevoli e raffinati, personale attento e premuroso, eccetera eccetera. La sala dove ci accomodiamo ha quattro tavoli, non esageratamente distanti fra loro; ad ogni modo, in un mercoledì qualunque di bassa stagione, sono tutti occupati, per due terzi da stranieri.

Il menu è diviso in due parti. C’è la proposta “Oggi”, nove portate a mano libera per 130 euro a persona. Oppure, girando la pagina, si apre una specie di monumento ai caduti del Vietnam, con i nomi dei piatti che hanno prestato servizio in questi ultimi anni. Fra di loro, tre antipasti, tre primi, un pesce e due carni, annunciati a voce, rappresentano i piatti del giorno, tra cui si possono scegliere tre portate a 80 euro o cinque a 100 euro. Con relativamente pochi indugi, ci orientiamo sul menu “Oggi”.

Riguardo la carta dei vini bisogna distinguere tra Champagne e resto delle etichette. Per quanto riguarda i primi la selezione è indubbiamente valida, e la politica dei ricarichi particolarmente accattivante. Quando ho adocchiato La Bout du Clos, il monovigna di Selosse ad Ambonnay, a 180 euro, prezzo legittimo sullo scaffale di un’enoteca, non ho potuto astenermi dall’ordinarlo. Sui vini fermi, invece, la selezione è personale ma anche più limitata, e i ricarichi nettamente superiori. La profondità di annate è comunque discreta, salvo poche eccezioni come i Chianti Classico di Castell’in Villa, non ci sono vini più vecchi del ristorante stesso, aperto dieci anni fa. Una scelta precisa.

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La prima portata è calamari fritti con limone e cumino, serviti insieme a un brodo istantaneo di carota e radici di carota. Una riedizione del mangia e bevi che evidenzia subito due caratteristiche della cucina di Lopriore. La prima è la predilezione per il limone, ingrediente che lo chef trova straordinario per profumo, valenza aromatica e varietà di utilizzo. Un frutto che viene colto direttamente nei giardini della Certosa, tanto per parlare di chilometri zero.

Permettetemi un inciso: ogni volta che sento abbinati il sapore del limone e la croccantezza della frittura (spesso ammollata dall’agrume), mi scatta un campanello d’allarme. Quando, nei tempi eroici della gestione di Edoardo Raspelli, quindi la seconda metà degli anni Novanta, la guida dei ristoranti dell’Espresso non esitava a pubblicare feroci stroncature, se la frittura di pesce aveva di fianco il classico limone tagliato in due, andava inflitta una penalità di mezzo punto, ma se il limone arrivava già spremuto c’era il cartellino rosso, ovvero l’esclusione dalla guida.

Su questi calamari, tuttavia, il limone ha un sapore più puro, non quello del classico succo spremuto, e la consistenza non ne risente.

L’altro topos culinario introdotto da questo piatto è la fascinazione per l’Oriente, evidente nel ricorso a spezie ed altri ingredienti, qui il cumino. Una tavolozza di sapori che lo chef ritiene stimolante.

Da lodare anche il brodo di carota e sue radici, che produce un efficace straniamento: il profumo indulge sui legni aromatici, sandalo e canfora, ma da metà palato in poi ritroviamo corrispondenza con la carota così come la conosciamo.

L’insalata di alghe, erbe aromatiche e radici è il piatto simbolo del Canto, l’unico che in tutti questi anni non è mai stato tolto dalla carta. Troviamo evidenti altre due caratteristiche: la mancanza di salse e l’insistere sulle sensazioni amare.

L’assenza di salse e fondi è un gesto di autentica rottura nei confronti dell’alta cucina tradizionale. Questo ovviamente genera contrasti più acuti fra i sapori e aumenta il differenziale tra una forchettata e l’altra della stessa portata, con effetti tanto più drastici quanto più siano presenti sapori fortemente marcanti: moltissimo, nel caso specifico.

Proseguiamo con una personale reinterpretazione del cocktail di scampi, serviti con prosciutto crudo di cinta, curry e foglia di fico, quest’ultima centrifugata e dal sapore forte e deciso, mentre il contributo del salume è essenzialmente tattile e volto a dare grassezza altrimenti un po’ sacrificata. Come in altri piatti di questo percorso, i nostri concetti di equilibrio e armonia sono messi in discussione.

In molte cucine importanti c’è un momento di ascolto della tradizione, di ritorno alle origini, di riflessione. Che siano la pasta e fagioli di Bottura alla Francescana di Modena o gli spaghetti al pomodoro di Romito serviti a fine pasto al Casadonna/Reale di Castel di Sangro. Il Canto non fa eccezione, ed eccoci a un intermezzo che prevede una riedizione del pomodoro in conserva, qui proveniente dalla madre dello chef, le cui origini sono al Sud. Per non smentirsi, tuttavia, il pomodoro è servito con liquerizia e bottarga, che ne rinforzano efficacemente il sapore in modo da non farlo sparire.

I filetti di triglia con semi di finocchio sono probabilmente il piatto più debole del menu: la base non è fortemente connotata, e l’aromaticità dell’essenza è un trucco che sa di già visto.

Divertente e gustoso intermezzo è la “zolla di Certosa”, revisione della classica ribollita allo stato solido.

Il piatto che più ha diviso è il petto di anatra selvatica con genziana, pinoli, acciughe e miele al pino. Sapori forti, fortissimi, che colpiscono e stimolano al dibattito, la riduzione a texture dell’ingrediente principale, il trionfo dell’amaro, la commistione di terra e mare senza troppi paraventi, il classico piatto “sexy ugly” che divide: piace moltissimo o per niente. A me è piaciuto pur riconoscendone i limiti, un piacere totalmente mediato dall’esperienza e dalla ricerca della ricerca.

L’ultimo piatto salato, servito in un ordine che non è quello che ci saremmo aspettati: ravioli di cicoria. Cinque ravioli, uno “liscio” e quattro ripieni di acqua di mare, olio nuovo (molto intenso), colatura di alici e aceto balsamico. Non ci sono ordini da seguire, escono fuori la dimensione ludica e un gusto un po’ transalpino per la variazione sul tema. Causa legge di Murphy sulla probabilità, mi è capitato prima l’aceto balsamico, poi la colatura e per terzo l’extravergine. Mentirei se vi dicessi di avere distinto gli altri due. In ogni caso si tratta di uno dei piatti più godibili dell’intero percorso, i ripieni contrappuntano perfettamente la verdura.

Sambuca e caffè, niente più di un intermezzo.

Noci, nocino e caramello. Qualcuno l’avrebbe chiamato assoluto di noce. Classico “dessert di chef”, in particolare, per i gusti decisi e la ridotta dolcezza, dessert di questo chef, coerente con i piatti che l’hanno preceduto.

Piccola pasticceria.

Dopo la prova del budino, la mia idea è che entrambe le fazioni, fedelissimi dello chef e denigratori, esagerino.

Siamo di fronte a una cucina di altissima scuola, con una sua cifra stilistica ben riconoscibile, che porta il degustatore a mettersi in gioco, a riflettere, a volte magari anche a non condividere le provocazioni. Una cucina dissimile da molte altre, oggi fuori moda se vogliamo, visto che molte tavole importanti e premiate cercano un approccio più materico (Cannavacciuolo a Villa Crespi di Orto San Giulio e Ilario Vinciguerra a Gallarate, come esempi lampanti).

Si può dire che ancor più di Enrico Crippa al Piazza Duomo di Alba –lo chef più assimilabile a questa proposta– Lopriore segua il discorso originario del suo maestro, Gualtiero Marchesi, ma in modo ermetico, a tratti estremistico. E’ una cucina cui bisognerebbe approcciarsi con un minimo di preparazione; secondo parte della critica, questo atteggiamento sarebbe da rifiutare a priori. Ma le critiche mi appaiono decisamente eccessive, anche se è vero che quantitativamente parlando, siamo di fronte a un percorso non così impegnativo (ma nemmeno si esce con la fame, dopo le nove portate).

E i fan forse si sentono gratificati da una cucina difficile, e si beano nello scavare un solco fra sé e coloro i quali non sono in grado di comprenderla appieno. Insomma, per me il giusto sta nel mezzo; si potrebbe discutere se una cucina così particolare meriti la seconda stella, ma che non ci sia nemmeno la prima è assimilabile a uno scandalo.

E’ interessante scoprire che il 60% circa dei clienti del Canto sia “interno”, ovvero rappresentato da ospiti dell’hotel Certosa di Maggiano; questa clientela è il carburante primario per una realtà che non ha multinazionali o grandi catene alle spalle. Nei primi mesi del 2013 all’interno della Certosa aprirà anche un altro ristorante, dedicato alla rivisitazione prandiale della cucina toscana. Nell’attesa, possiamo dire senz’altro che quella di Paolo Lopriore è una cucina sottovalutata dalle guide, in cui l’elemento provocatorio, seppur presente, non giustifica le valutazioni espresse. Verso il basso.

Questa la mia ardua sentenza.

[Crediti | Link: Dissapore. Immagini | copertina: Flickr/Alifewortheating, piatti: Fabio Cagnetti]