La situazione del modello bar? Uno scrigno di problemi – almeno stando a quanto emerso dalla più recente analisi firmata Fipe. Eh sì, perché nell’ultimo decennio (tra il 2012 e il 2022, per intenderci) il numero delle imprese che svolgono attività di bar è di fatto crollato di circa 15 mila unità, con una ferita aperta che “sanguina” 10 mila attività all’anno. Numeri di chiusure preoccupanti, sì, che si traducono in un tasso di sopravvivenza – ossia la durata media della vita della tipologia di locali in questione – piuttosto drammatico, con appena un bar su due che riesce a superare il muro dei cinque anni di lavoro.
Numeri e difficoltà di un settore: il commento della Fipe
Il rapporto, presentato come anticipato qualche riga più su dalla Fipe nel corso della tavola rotonda “Le sfide del bar del futuro: qualità, professionalità e innovazione”, ha dunque mostrato un quadro di forte tensione e allarme, segno di un settore che – come ha poi spiegato la stessa associazione – potrebbe giovare da una revisione radicale del suo stesso modello.
Prima di tuffarci in commenti e ipotesi, però, diamo ancora una breve occhiata a qualche numero: il report dice il settore impiega attualmente più di 300 mila persone, e che può godere di una forte capillarità su tutto il territorio nazionale (tanto che si contano due imprese ogni mille abitanti, con nove comuni su dieci che possono vantare la presenza di almeno un bar) con ritmi di lavoro molto alti – apertura sette giorni su sette e una media di quattordici ore al giorno passate dietro al bancone.
Si segnala, per di più, un netto aumento della presenza di imprenditori stranieri: a oggi si contano più di 12 mila – equivalenti al 12,2% del totale complessivo – i bar gestiti da stranieri, con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che presentano le percentuali più alte dell’intero Stivale (equivalenti o addirittura superiori al 20%).
“Stanno in questi numeri le difficoltà che attraversa il format bar” spiega Matteo Musacci, vice presidente di Fipe Confcommercio “stretto nella morsa di una competizione sempre più sfrenata e di un modello di gestione che riesce a conciliare costi e ricavi solo attraverso enormi sacrifici personali di chi ci lavora, soprattutto se si tratta del titolare e dei suoi familiari”.
La cosiddetta pietra dello scandalo pare sia nella discrepanza tra costi e guadagni: “Tenere in piedi un’azienda che deve pagare stipendi, canoni di locazione esagerati e attualmente bollette fuori controllo, con caffè e cappuccini al prezzo di poco più di un euro sta diventando sempre più difficile” ha continuato Musacci. “Occorre ripensare il modello di business partendo dal presupposto che tenere aperto 7 giorni su 7 per oltre 14 ore al giorno non sempre è economicamente sostenibile“.
Rimanendo in questo contesto, vi segnaliamo un altro appello della Fipe, che di recente ha avviato una protesta contro l’aumento delle commissioni di TheFork.