La cucina italiana è diventata Patrimonio Unesco. È stata la notizia del giorno, e con ogni probabilità lo sarà anche per i giorni a venire. L’avrete intercettata sui giornali, magari da qualche chiacchiera, più probabilmente sulla vetrina dei social: poco cambia. Il dossier di candidatura non parla di ricette, non parla di piatti e certamente non parla di prodotti; ma il logo ufficiale potrebbe suggerire altro.
Quel che è diventato Patrimonio Unesco non è la pasta al forno, non è il sapere dell’allevatore e di sicuro non è la Nutella; ma la cultura che definisce il rapporto tra gli italiani con il cibo. Il logo è una mano che spadella cose, e tra le “cose” c’è il rischio che il riconoscimento venga frainteso, strumentalizzato, banalizzato.
Cosa c’è che non va nel logo della “cucina italiana”?

Nel pentolone della cucina italiana ci sono champignon strappati direttamente dalla sezione free di Canva. C’è un calice traboccante di coriandoli. C’è un (davvero italico) boccale di birra con tanto di eloquentissima etichetta: “BIRRA”. C’è un barattolo dalla forma inconfondibile circondato da nocciole. Non c’è, fortunatamente, un pacco di pasta blu con un ovale rosso.
Michele Antonio Fino ha scritto sul Gambero Rosso che “il dossier di candidatura è una cosa incredibilmente, strutturalmente, irriducibilmente diversa da quello che qualcuno lascia intendere per il proprio tornaconto e qualcuno apertamente travisa per sventolare alto il vessillo del gastronazionalismo“. Ma che significa?
Significa che ogni logo è parlante, e che quello scelto per la cucina italiana dice che c’è il pericolo di non averci capito granché, della candidatura. La “cucina italiana” che è diventata Patrimonio Unesco non parla di produttori, agricoltori, allevatori o di una singola pratica specifica: perché allora infilare un barattolo di Nutella? Lo guarderemo, tra qualche tempo, come il paziente zero di ricette tradizionali della GDO con tricolore e scritta “Patrimonio Unesco”?
È giusto sottolineare come tra il nome e il cognome della candidatura – la “cucina italiana” – e l’intenzione degli autori del dossier ci sia un certo scarto semantico, e che dunque sia possibile incappare in equivochi che favoriscono tornaconti politici e narrativi. Insomma: è facile far finta che la “cucina italiana” che è diventata Patrimonio Unesco sia altro, e approfittarne per farne uno spot o una pubblicità. È fondamentale rimanere intellettualmente onesti, però.
La chiave della valorizzazione sta nella direzione opposta alla banalità. Avviciniamo il riconoscimento, conosciamolo, viviamolo con il rispetto e l’orgoglio che merita: magari senza barattolo di Nutella. Che per carità, piace a tutti noi compresi, ma che c’entra il prodotto di una multinazionale con la cucina italiana? E non è la prima stonatura: ricordate quando fu donata come simbolo del Made in Italy a Re Carlo e ai leader del G7?
