Potete pensarla come volete sulla peste suina. Liberi di non preoccuparvi e continuare a mangiare salsicce e prosciutti senza curarvi di come sono arrivati sul piatto. O anche solo farvi due domande sull’emergenza in corso. Perché di emergenza si tratta, e il colpevole va ricercato nei capannoni degli allevamenti intensivi. E siccome la malattia non guarda in faccia nessuno, ci va di mezzo anche chi alleva in maniera sostenibile. Così i grandi “contagiano” i piccoli produttori, nonostante la distanza e le regole di bio-sicurezza. Alla fine, a pagarne le conseguenze peggiori, sono proprio loro.
Focolai intensivi
La peste suina africana è ormai una vecchia conoscenza. I casi in Italia si registrano da almeno tre anni, a partire da gennaio 2022. Una malattia subdola e altamente trasmissibile, che trova il suo focolaio di elezione nell’ambiente chiuso, sporco e caotico degli allevamenti intensivi. Finora in Italia il virus ha causato l’abbattimento massiccio di più di 120mila maiali. Ma attenzione, perché se nel frattempo in Europa i casi diminuiscono grazie alle contromisure prese dalle autorità, ci sono due paesi in cui accade esattamente l’opposto. Uno è la Polonia; l’altro, indovinate un po’, è proprio il nostro.
Un rapporto EFSA del 2024 ha riscontrato che in Italia i casi aumentano. A confermarlo le numerose inchieste, a partire da quelle di Report. Più che un servizio giornalistico, un film dell’orrore: animali infetti, condizioni igieniche disastrose, uccisioni disumane, montagne di carcasse. Il problema non è neanche tanto la peste suina in sé. Il punto è che al primo esemplare positivo, tutto l’allevamento va abbattuto. Spesso accade che quei pochi che si salvano, seppur infetti, vengano mandati in fretta e furia al macello. Non è più tanto buono quel panino col prosciutto, vero?
Grandi contro piccoli
La situazione sarebbe già tragica di per sé, se non fosse che ad andarci di mezzo sono anche i piccoli produttori. Quelli che allevano razze autoctone in modo sostenibile, e che soprattutto osservano le misure di bio-sicurezza. Un report di Slow Food riporta la testimonianza di Tiziana Sfriso, allevatrice del Nero di Parma allo stato semibrado. La peste ha bussato anche alla porta dei suoi boschi sull’Appennino parmense, a pochi chilometri da un salumificio.
Tiziana Sfriso si considera agli antipodi dell’allevatore intensivo. La sua azienda inizia con tre scrofe e un verro nel 2017, e da lì prospera seguendo principi agroecologici e biodinamici. Eppure il 9 maggio scorso accade qualcosa: nell’area un cinghiale viene trovato morto, positivo al virus. Nessun caso fra i maiali domestici, protetti dalle barriere e dal rispetto delle normative. Ma il problema resta, e giunge sotto forma di ultimatum da parte delle istituzioni: o macelli tutti i capi, o li chiudi in un capannone.
Triste ma tutto sommato facile se ne hai centinaia, come accade nei grandi allevamenti. Per Sfriso e altre piccole attività rurali però non è così. Macellare vorrebbe dire perdere il lavoro, e in molti casi condannare all’estinzione specie di nicchia tenute in vita proprio da allevatori vecchio stile come loro. L’ottemperanza alle normative di contenimento basta fino a un certo punto se il territorio è lo stesso dei capannoni industriali. In questo caso, i salumifici di Felino, Langhirano, Sala Baganza.
È un classico esempio dei grandi che schiacciano i piccoli. Dall’inizio della pandemia, l’Italia ha perso il 30% degli allevamenti semibradi. Nel periodo 2022-2024 i capi allevati in maniera rurale (e le rispettive aziende) sono diminuiti di decine di migliaia: da 147.897 a 122.375. Oltre al danno, la beffa è che si tratta di numeri irrisori rispetto alla grande industria che tratta quotidianamente milioni di esemplari. Al 96% dei casi sono allevamenti intensivi. Con tutte le conseguenze, per animali ed esseri umani, che ne derivano.