Un tempo qui era tutto sushi

Sono episodi che osservo ormai da giorni senza trovare spiegazioni. Che il disastro nucleare giapponese arrivi sulle nostre tavole sotto forma di pesce, carne, latte, frutta o verdura contaminata dalle radiazioni è un’ipotesi improbabile, non è insomma una nuova Chernobyl, eppure una schiacciante maggioranza di persone il cui grado di scolarizzazione non lambisce l’analfabetismo, ha cancellato i ristoranti giapponesi dall’elenco dei posti frequentabili. Diciamo anche che smetteremo di mangiare il sushi perché le notizie dei primi giorni sono sempre sbagliate o balbettanti.

Tipiche modalità da psicosi collettiva, e tappare i buchi sembra impossibile. Nonostante le rassicurazioni (“per il momento l’Italia non ha alcun motivo di allarmarsi“) la lista delle vittime giapponesi, già di per sé lunghissima, si prepara a includere due icone come il sushi e la pregiata carne di Kobe, ha scritto ieri il New York Times.

La percentuale di noi che si pone il problema di pensare cose sufficientemente intelligenti è in caduta libera, crediamo che tutto il sushi del mondo sia fatto col pesce radiottivo, e dimentichiamo che da quando si mangia ai 4 angoli del pianeta, la possibilità che il nostro sushi e i suo ingredienti provengano dalle 4 prefetture a rischio: Fukushima, Ibaraki, Tochigi e Gunma, praticamente è inesistente. Già prima del terremoto la soia spesso arrivava dall’Olanda, la birra dalla Germania, le alghe dalla Cina, il tè dello Sri Lanka.

Eppure, il meccanismo è ormai consolidato. Chiamatelo spirito di sopravvivenza ma in certi casi facciamo scattare l’autodifesa, posso chiedere se va così anche per voi?

[Crediti | Link: Wired, New York Times, immagine: New York Times]