Apologia del menu breve

Torniamo alla normalità, ma fino a un certo punto: il listone di pietanze da muscolari anni '90 lasciamolo all'era prepandemica e vi prego, ricominciamo dal menu breve.

Apologia del menu breve

Da quando hanno riaperto i locali, con il progressivo abbandono della maggior parte delle restrizioni anti Covid-19, e siamo tornati a mangiare fuori, provo una crescente intolleranza per una cosa: i menu spropositatamente lunghi, pieni di paginate per ogni categoria, o addirittura caratterizzati dall’affastellarsi di concetti e tipologie di cibo diverse (sushi/pokè/insalatona/noodles/muffin). Già prima, quando iniziavo a vedere cartellette composte da più fogli, se non veri e propri tomi da sfogliare, sentivo montare un leggero, quasi inconscio senso di fastidio; ma lo reprimevo. Ora, con i menu virtuali scaricati tramite QR code, incominciare uno scrolling che pare infinito, tipo quello dei social, mi fa salire una palese ansia. Ma non potrebbe essere un po’ più breve questo menu, mi chiedo. Ok, menu breve: ma quanto?

Secondo una posizione radicale, l’unico menu buono è quello morto. Cioè quello che non esiste. Un locale senza menu si può trovare, paradossalmente, ai due estremi dell’offerta gastronomica: nella trattoria più scalcagnata e deep, e nel fine dining più di avanguardia. La trattoria – come ricorda Tommaso Melilli ne I conti con l’oste – nasce proprio come estensione della cucina di casa, di famiglia, da chi preparava per sé e inizia a farlo per gli altri, a pagamento. È normale allora che i posti più vicini a questa fonte originaria possano conservare tale approccio molto alla buona, letteralmente casereccio: tu vai, e quello che trovi mangi. Il che non è essere trattati male, ma al contrario, è una cosa molto intima e confidenziale: come essere invitati a casa da un amico, anzi è come tornare a casa propria da bambini. E infatti “I felt like a very sophisticated baby”, commenta Rachel Sugar su Grubstreet, in un articolo che parla dei ritorno ai menu brevi.

Dall’altro lato, abbiamo il percorso obbligato di ristoranti stellati e aspiranti tali: è la naturale evoluzione del menu a mano libera dello chef, o dei percorsi degustazione, a volte due o tre, disposti in progressione di quantità e pezzo, che affiancano il cosiddetto menu à la carte. Non sono poche le chef star che hanno coraggiosamente abbandonato la carta, come anche i giovani sperimentatori che sono partiti direttamente così. È una scelta che risponde a un concetto diametralmente opposto: quello che avvicina la gastronomia all’arte. Chiedereste mai la modifica a una battuta quando andate a teatro a vedere un’opera di prosa? Pretendereste di scegliere i quadri esposti in una personale al museo? E allora: questa è la mia opera, questa è la mia proposta, dice lo chef, prendere o lasciare. Dove prendere significa, al contrario della cucina di trattoria che ti riporta a casa, iniziare un percorso al buio, che ti trascina in territori completamente nuovi. 

I difetti del menu lungo

menu comanda cameriere

Ora io non dico di arrivare a soluzioni così estreme per tutti. Però, perché trenta, quaranta, cinquanta voci? Qualche settimana fa un pezzo del Wall Street Journal riportava che molti ristoranti negli Usa, per effetto della pandemia, hanno riaperto con un menu molto ridotto rispetto al passato. E questo è capitato un po’ a tutti, dal piccolo ristorantino al locale di catena, da quelli che già avevano un’offerta ridotta – e sono passati da tre percorsi alla degustazione unica – a quelli che avevano otto pagine di piatti, e ora ne hanno due.

Qui sembra succedere il contrario. Sono cambiate molte cose nella ristorazione, con la pandemia: hanno chiuso un sacco di posti, altri hanno dovuto rivedere completamente il modello di business, c’è la carenza di personale di cucina e sala (o meglio: cuochi e camerieri possono pretendere condizioni lavorative migliori), ma l’insensata passione per i menu interminabili non cambia. Si tagliano i costi, si tagliano i dipendenti, si alzano le ore di lavoro e i prezzi: ma l’unica cosa che avrebbe senso ridimensionare, non si tocca.

Lo noto soprattutto nelle pizzerie, perché è il tipo di locale che giro di più (per recensire quelle di Torino), ma non solo. E così trovo: pizza e sushi, pizza ma anche fritti ma anche insalate, pizza e pokè ma volendo ci sono pure i primi di pasta. E se ci sono solo pizze, magari ce ne stanno quarantacinque gusti. Ma perché. Non dico che devono fare tutti come Michele ai Tribunali, la pizzeria napoletana famosa, oltre che per le attese bibliche, per il fatto che serve solo marinara e margherita. Ma personalmente se entro in un locale con dieci pizze dieci, senza antipasti e senza contorni, penso cavoli, questi sanno il fatto loro. Come pure se entro in una bakery dove in una vetrina ben illuminata vedo una sfilza chilometrica di croissant (magari con farciture diverse, ok), e poco altro, parto già ben disposto, penso come minimo che offrano il miglior cornetto del mondo (poi se non è così, vabbè, non sarà mio l’errore).

Evidentemente non abbiamo imparato nulla dal successo dei format verticali, monotematici: dopo le classiche pizzeria, piadineria, paninoteca, friggitoria, abbiamo visto negli ultimi anni il sorgere di specializzazioni sempre più ristrette: il locale di soli toast, quello che fa esclusivamente varianti del tiramisù, quello che offre decine di tipi di pop corn. E vabbè, sono esagerazioni, ma anche dall’altro lato non si scherza.

Ci siamo scordati anche della lezione di Cannavacciuolo: quando girava l’Italia con Cucine da incubo, la prima cosa che faceva – oltre a rinnovare il locale, motivare la squadra ecc – era in sostanza mettere mano alla carta. E lo schema era fisso, anche prevedibile ormai, ma non privo di suggestione: quattro antipasti, quattro primi, quattro secondi, quattro dessert. Perché avere un menu ristretto e ben definito porta vantaggi a tutti gli attori della cosiddetta filiera: dal ristoratore, anzi ancora più su dal produttore, fino al cliente.

I vantaggi di un menu breve

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Per il ristorante, avere un menu breve significa, se lo si fa con criterio, avere un menu definito, coerente. Una carta che solo a guardarla definisce l’identità: mare o terra, tradizionale o di ricerca, eccetera.

Per il gestore, avere pochi piatti in carta significa limitare i prodotti da comprare, e quindi limitare gli sprechi. Ci sono gli ingredienti che vanno in tutti i piatti o quasi, come c’è sempre l’eccezione, l’alimento particolare che ha un utilizzo unico: se questa cosa avviene in un piatto solo okay, ma se le preparazioni che presentano l’unicum sono tante, il rischio è che se non viene richiesto per vari giorni, quell’ingrediente va a male e si butta. E questa non è solo una perdita economica per il ristoratore, ma anche uno spreco alimentare, un danno all’ambiente.

Per chi lavora in cucina, avere pochi piatti semplifica e migliora il lavoro: non obbliga a ricordare a memoria duecento ricette, con tutte le loro specificità, dal procedimento all’impiattamento; non costringe a maneggiare duecento ingredienti rendendo il piano di lavoro un caos. E lavorare in serenità, chi lo ha fatto lo sa bene, è il viatico migliore per fare ottimi piatti.

Per i clienti, infine, innanzitutto significa minimizzare lo stress della scelta, quello che dal menu obbligato è proprio escluso in toto. Ma al di là di questo aspetto psicologico, che può essere soggettivo, il menu lungo fa sorgere la difficoltà a memorizzare le cose interessanti: se in una pizzeria ci sono più di 25 pizze, io arrivato in fondo già mi so’ scordato qual era la prima (vabbè ok, era la margherita). Cui si aggiunge la tarantella di mettere d’accordo tante persone: ci dividiamo qualche antipasto, e quale? Sicuri di voler prendere otto primi diversi, e se poi ci chiedono di non farlo, e se poi mettiamo in difficoltà la cucina?

Avere meno scelta significa avere meno possibilità di sbagliare, di beccare proprio il piatto che viene meno bene tra tutti (e che non si sa perché non è stato ancora tolto dal menu: ma si sa, ognuno è il peggior giudice di sé stesso, vale anche per gli chef). E collegato agli elementi detti sopra: meno difficoltà per il cliente nel cogliere l’identità, lo spirito del locale. Meno rischi di trovarsi nel piatto quel caco-mela sottolio che giaceva dimenticato in fondo al frigo da settimane. Più probabilità di avere un piatto ben preparato da gente allenata a farlo.

Certo, c’è il  cliente abituale, dirà il ristoratore: quello rischia di annoiarsi, di non tornare più se gli propino sempre le stesse cose. Ma quanti sono i clienti abituali, davvero? Cioè, già andare a mangiare fuori una volta alla settimana è tanto, la maggior parte delle volte la gente preferisce cambiare, provare posti nuovi. E poi, se il cliente è abituale, significa che l’hai agganciato con qualcosa che gli piace: tenderà a prendere sempre gli stessi piatti.

Ci sono poi altri modi per tenersi il cliente abituale: fare il piatto del giorno, oltre ai pochi alla carta, e farlo sempre diverso, a sorpresa, inventandosi sempre cose nuove, e usandolo come valvola di sfogo per tutta la creatività che si ha – oppure facendo ruotare tutti gli altri piatti che si sono tolti dal menu. E poi prevedere una rotazione frequente del menu, magari su base stagionale: così per chi torna ogni tre o quattro mesi sarà come trovare un posto completamente nuovo. Non vedo errori.