È giusto tassare le mance? Intanto cominciamo a darle

La Corte di Cassazione ha appena stabilito che le mance si devono tassare, in un Paese dove la mancia non è propriamente la prassi. Salvo rari casi, dove fanno la differenza.

È giusto tassare le mance? Intanto cominciamo a darle

Nella vita solo due cose sono sicure: il conto del ristorante a fine pasto, e le tasse. Il primo è inesorabile, le seconde a volte hanno qualche incertezza: ma poi arrivano. Tipo: le mance vanno tassate? La Corte di Cassazione ha appena detto di sì: anche se sono soldi che non provengono dal datore di lavoro, sono comunque reddito da lavoro, e quindi ci si deve pagare l’Irpef. “Le erogazioni liberali percepite dal lavoratore dipendente, in relazione alla propria attività lavorativa, tra cui le cosiddette mance, rientrano nell’ambito della nozione onnicomprensiva di reddito fissata dall’articolo 51, primo comma, del Dpr 917/1986, e sono pertanto soggette a tassazione”.

Una simile decisione era stata già presa dalla Cassazione quindici anni fa: nel 2006 aveva stabilito che erano da sottoporre a tasse le mance dei croupier nei casinò. Finora però in linea generale si era pensato che le mance rientrassero nelle donazioni di modica quantità (articolo 783 del codice civile) che secondo una circolare dell’Agenzia delle entrate del 2008 non sono soggette a tassazione. Ora invece è stata proprio l’Agenzia delle entrate a iniziare un accertamento fiscale poi mutato in un contenzioso che è arrivato fino al supremo giudice. 

Vero è che nel caso specifico da cui è scaturita la sentenza, le cifre sono tutt’altro che modiche: si parla di 83.650 euro, percepiti in un anno da un impiegato di un lussuoso hotel in Sardegna. (Somma così precisa, accertata come, tra l’altro? Mi viene da chiederlo perché evidentemente non si trattava di spiccioli allungati a mano o in una busta.) Ma trovo più interessante andare oltre il singolo caso, e ragionare sulle mance in generale. 

Il resto, mancia

Mancia

E il resto mancia: un modo di dire, molto più che un modo di fare. Tenga pure il resto, disse nessuno mai: o al massimo lo disse al tassista. In Italia, si sa, l’abitudine a dare la mancia al ristorante o al bar è minoritaria, nonché saltuaria. A Napoli per esempio c’è l’uso di lasciare una moneta da 10 o 20 centesimi (una volta: la cento o la duecento lire) sul bancone del bar insieme allo scontrino del caffè: ma sono appunto somme irrisorie, e soprattutto usanze territorialmente circoscritte.

Cifre non meno irrisorie, fatte le debite proporzioni, sono quelle che di solito lascia in mancia anche chi ha l’accortezza di pensarci: nella maggior parte dei casi è appunto il resto in moneta, quindi dai 4 euro in giù, fino ai pochi spicci. Difficile che uno si metta a fare, come sarebbe corretto, il calcolo del 10% o anche del 5% rispetto alla cifra del conto. Pensateci: andate al ristorante con altre tre persone, spendete 200 euro: lasciate 20 euro di mancia? Complimenti, ma siete perle rare. La maggior parte delle persone, più paga e meno ha voglia di ulteriori esborsi.

Ancora peggio poi ora che hanno (finalmente) preso piede i pagamenti elettronici: se prima maneggiando banconote ci poteva venire in mente di aggiungere qualcosa per il personale, ora mettere mano al bancomat e prendere i soldi sono due operazioni che appartengono proprio a due sfere mentali – e spesso anche materiali – diverse.

La questione mance è peculiare e disomogenea non solo dal lato di chi elargisce, ma anche dal lato di chi riceve. Che fine fanno le mance, infatti? Ci sono vari modi di gestire e interpretare: quello personale, cioè se la becca il cameriere a cui la date, o quello che sparecchia il tavolo. Modo sommamente ingiusto, soprattutto nei confronti del personale di cucina, e infatti poco usato (altro è la mancia al singolo rider, per dire). Più frequente è la raccolta indifferenziata, la somma che poi viene divisa tra tutti a fine mese o settimana: a quest’uopo ci sono vicino alle casse di molti locali gli appositi salvadanai o boccacci. Ci sta pure poi il ristoratore che non distribuisce le mance a soldi, ma usa le somme per acquistare beni per i dipendenti, oppure bottiglie o dolci da mettere in tavola a cena: come se facesse loro un  regalo.

Tutt’altra storia all’estero, sappiamo anche quello: in molti paesi del nord Europa chi lavora come cameriere può aspettarsi dalle mance un guadagno del 10% in più rispetto allo stipendio pattuito. Ma l’apoteosi è negli Stati Uniti, dove la retribuzione di chi lavora nella ristorazione e nelle consegne è istituzionalmente composta da due voci: stipendio e mance. Lo si vede in tutta evidenza nelle lotte tra associazioni di categoria che si stanno svolgendo in questi mesi: lavoratori e National Restaurant Association si danno battaglia su più punti, tra i quali uno è l’innalzamento del salario minimo, l’altro l’abolizione del minimo di mancia. 

Lo sa bene chi, in America, si è visto arrivare un conto e poi la maggiorazione per le tips, e ha provato a non pagarla perché magari il cameriere era stato particolarmente scortese: no non puoi scegliere, non è un premio che dai se ti sei trovato bene, è un obbligo.

In ogni caso, anche se parliamo di percentuali che si aggirano tra il 10% e il 15%, si tratta sempre di cifre che non vedono neanche da lontano gli 80mila euro guadagnati dal dipendente dell’albergo sardo di cui sopra. A me sembra che in quel caso più che di mance si debba parlare di elargizioni fatte per ingraziarsi chi si trova in una posizione di potere: un po’ come le regalie che si fanno a medici e altri professionisti a Natale o in altre occasioni (a proposito, quelle donazioni, le bottiglie di vino di 200 euro, non vanno tassate, no eh?).

Mancia che ti passa

Mance

Io, personalmente, non sono un sostenitore entusiasta del sistema delle mance. Innanzitutto, perché mi sembra che siano un modo per scaricare sui dipendenti il rischio d’impresa: consentono all’imprenditore di pagare un fisso di base, e il resto è una sorta di premio produzione, di percentuale sulle vendite come quella che si dà agli agenti immobiliari – con la non piccola differenza che le persone che lavorano a cottimo o con provvigione hanno un minimo di controllo sulla produzione, mentre certo non dipende dal cameriere o dalla cuoca quanta gente entra nel locale, o quanto sia generosa quella che entra. In più il ristoratore fa la figura di quello che tiene i prezzi bassi, mentre la possibilità per il lavoratore di superare la soglia di sopravvivenza è lasciato all’alea, alla munificenza del privato.

E poi, appunto, non amo il sistema delle mance così come non amo un sistema economico che redistribuisca le ricchezze attraverso la beneficenza dei singoli. Così come non amo l’insistenza sulle responsabilità e i meriti individuali in sfide globali e palesemente bisognose di soluzioni politiche, come la lotta al riscaldamento globale.

Però. Magari questa sentenza della Cassazione può essere di stimolo. Nel frattempo. Mentre non lottiamo e otteniamo un sistema economico migliore. Mentre non si consolida questa situazione per cui molti addetti ai lavori cambiano settore, perché non più disposti a faticare a certe condizioni, e quindi i pochi che restano sono contesi e possono strappare condizioni migliori. Nel frattempo: perché noi clienti non incominciamo a dare le mance? Per rimpinguare non solo le casse dello Stato, ma anche le tasche dei lavoratori.