Ristorante Reale di Niko Romito: anatomia di un’esperienza

Una non-recensione dopo aver provato LA cucina di Niko Romito al Ristorante Reale di Castel di Sangro: opinioni e domande irrisolte.

Ristorante Reale di Niko Romito: anatomia di un’esperienza

Ho sempre misurato la grandezza di pasti e ristoranti in funzione di quanto il godimento procurato dai piatti e dal servizio, dagli abbinamenti, fosse in grado di rimanere fisso e vivo in mente. In questo senso, la visita al Ristorante Reale di Niko Romito, in occasione del suo ventesimo anniversario, ha cambiato tutto. Badate, questa che leggerete non è la solita agiografia del superchef di Castel di Sangro. In realtà, giunto a questo punto della recensione, non so neanche io che forma avrà il testo che mi uscirà dalla tastiera; perché il pranzo al Casadonna è per me tuttora – dopo due ore e più trascorse al tavolo, 250 kilometri di via di ritorno e una settimana di metabolizzazione – un oggetto del mistero totale.

Reale_Niko_Romito_Esterno

Di più, è qualcosa che cerco di decifrare, codificare, normalizzare ma senza riuscirvi a pieno: ripensando al pasto, ogni volta che trovo di aver afferrato un lato distintivo, quando addirittura non l’essenza della cucina e del luogo, subito mi viene alla mente una caratteristica opposta che contrasta la precedente con intensità quasi violenta; mai mitigandone l’intensità, ma arricchendone con vivacità ancora maggiore i contrasti.

Il Reale mi ha spiazzato, e mi sorprendo di questo essere così sorpreso e colto in fallo, sprovvisto degli strumenti per una valutazione oggettiva e obiettiva.

L’unica certezza che ho, a distanza di sette giorni, è che per leggere un pasto al Reale non bastano le lenti dell’edonismo, per quanto necessarie: bisogna invece tenere in considerazione una capacità diversa e superiore, quella di aprire nel commensale un solco – anzi, direi proprio una problematicità – che provoca il pensiero e la riflessione per giorni, e giorni a venire.

Reale_Niko_Romito_Sala

 

Se dicessi che da Romito ho avuto l’esperienza di ristorazione più gratificante della mia pur modesta carriera di cliente, mentirei: mentirei anche, però, se non ammettessi che nessun altro pasto mi sia mai tornato in mente (a farsi indagare, perquisire, analizzare) altrettanto forte e così a lungo.

Così, dal menu di 15 portate a 150€ che il Reale offre post-quarantena per celebrare i vent’anni di attività, mi scaturiscono pensieri.

E affermano che giudicare l’esperienza attraverso i parametri tradizionali della critica restituirebbero una visione parziale e distorta; forse ingiusta.

Questa non è una recensione: al contrario, voglio raccontarvi alcuni dei contrasti che delineano la filosofia di cucina di Romito, augurandomi possano tracciare un’idea il più precisa possibile di cosa significhi mangiare al Reale.

Il minimalismo e la complessità: l’essenziale come scopo, forma e mezzo

Reale_Niko_Romito_Piccione

Se andate a Casadonna attendendovi la pluralità circense che anima tipicamente le creazioni di alta cucina, preparatevi a restare confusi: l’essenzialità visiva dei piatti dei vent’anni di Reale disorienta.

Sul supporto di portata compaiono tre, due, un solo elemento.

Sono banditi gli orpelli, le salse usate come bizze cromatiche, i dripping, le schiume, le arie, i germogli, le creme a specchio, i fiori eduli, i coralli, le sabbie, le cialde, i gel, i capricci da stellato sbandierati in televisione e nelle foto digitali. Dai secondi si eclissano i contorni, dai primi l’ingombro protagonistico dei condimenti. L’ingrediente si presenta puro e riconoscibile, solo, cifra unica di decodificazione. Ad accompagnarlo un comprimario (una pasta o una salsa, densa, materica e pura come pigmento di colore a olio; una singola foglia di dragoncello).

Al palato, per contro, quegli stessi elementi nudi si dispiegano in un’articolata stratificazione gustativa che illustra intimamente, a chi sta mangiando, gli innumerevoli processi che hanno portato la materia prima originale a trasformarsi nella sostanza fino ad assumere consistenze ed espressività verticali.

Quella di Romito è una cucina riassuntiva, che toglie anziché aggiungere, e concentra nello spazio di un singolo ingrediente l’intera categoria ontologica di quello stesso; mirando a raggiungerne la quintessenza.

Emblematico, in questo senso, il Piccione fondente e pistacchio: abolite le velleità di croccantezze e guarniture, il piccione è solo un piccione, anzi, un pezzo di piccione, anzi, il piccione: cotto in brodo di piccione, morbido e succulento, racchiude in ogni boccone l’idea pura dell’ingrediente; e amplificandola a volumi travolgenti la rende esperibile. Accompagna la carne una pasta di pistacchio, che ingrassa il boccone, unge la bocca.

Quando “territorio” non è una parola usata a caso

Reale_Niko_Romito_Agnello

Romito non è un cuoco italiano, quanto è invece un cuoco abruzzese. Tutto ciò che viene pensato e servito è iper-locale tanto negli ingredienti che nelle ricette, smaccatamente familiare (eppure completamente nuovo) nei gusti e talvolta persino nelle modalità, in una teoria di ricette che dall’Appennino aquilano si concedono eccezionalmente una fuga, al massimo, verso i trabucchi della costa pescarese.

I sapori dell’Arcaico vengono proposti – seppur amplificati, ridotti e concentrati all’inverosimile – in trasposizioni letterali che non indispettirebbero, e semmai ingolosirebbero, il più tradizionalista alfiere delle trattorie.

Niente spezie fuori contesto, nessuna influenza giapponese, neanche una capatina in India – non per carenza di esperienze, ovviamente, ma per esplicita scelta del cuoco, che vuole farsi ostinata testa di lancia della sua storia e del luogo da cui proviene.

L’Abruzzo è terra difficile e aspra quanto vera e ricca: da essa origina il duplice orgoglio, in Romito, di raccontarne l’animo con amore incondizionato di figlio, e quello più puntiglioso e personale di avercela fatta contro ogni pronostico; sfidando con il proprio lavoro una cornice socio-economica e logistica considerata dagli analisti del cibo, sin dal momento zero, handicap insormontabile.

Come l’operazione del piatto è riassuntiva anziché additiva, anche il processo di internazionalizzazione del territorio operato da Romito prosegue, rispetto ai dettami generali dell’alta cucina contemporanea, controcorrente: lo chef non immette nella cornice del gusto del territorio elementi esterni che ne snaturano la fenomenologia, ma rilavora e lustra dall’interno quella stessa tradizione fino a renderla capace di ispirare a livello globale.

Reale_Niko_Romito_Brodo

Piatto-simbolo di questa operazione è l’Agnello alla brace e patate, il puro Abruzzo dell’immaginazione colto nel momento della Pasquetta – con la costina di ovino cotta al vapore, affumicata e poi rosolata alla brace e una parvenza di accompagnamento di patate arrosto; inevitabilmente nella loro versione riassuntiva, materica e pigmentoide; così come il Brodo di capra, dragoncello e lamponi; di un’essenza locale quasi primitiva.

 

“Tradizione” e “Ricerca” hanno un significato preciso, e non è quello che intendono gli uffici stampa

Reale_Niko_Romito_Ravioli

La questione relativa alla tradizione segue, naturalmente, dal punto precedente: nonostante da qualche decennio il pensiero forte dell’alta cucina cerchi di convincerci del contrario, il territorio non è solo ingrediente, ma un insieme di tecniche e preparazioni che i cuochi fissati con la ricerca del Graal dell’avanguardia rigettano integralmente; buttando via il bambino con l’acqua sporca.

Se però riusciamo a rinunciare a vedere la tradizione come un corpus di comandamenti esecutivi immutabili – si fa così e basta – questa diviene un manuale di gusto irrinunciabile, che ci permette di leggere e comprendere l’evoluzione storica di terre e popolazioni.

Recuperare la sfera gustativa delle preparazioni tradizionali, riuscendo contemporaneamente a superarne il lato puramente tecnico-tecnologico mentre ne preserviamo l’integrità sensoriale, è un’operazione rara e poco discussa quanto complicata: il fatto che molti non siano all’altezza di compierla, però, non significa che sia impossibile; ma semplicemente che è più facile fingere lo sia, e ripeterlo ad oltranza fino a convincere tutti.

Negli ambienti del fine dining capita così di trovarsi di fronte a piatti “della tradizione” rivisitati, destrutturati, ricomposti fino all’irriconoscibilità.

In Romito, invece, si assiste esattamente a una ristrutturazione della tradizione – intesa letteralmente, come ricodifica della struttura – che percorrendo la creazione di un piatto, ma attraverso vie tecniche nuove, ne altera le caratteristiche fino a potenziarle e consolidarle, incrementandone significato e saturazione, rimanendo non genericamente “nel solco”; ma nell’esatta cornice della pietanza originale.

È il caso ad esempio dei Ravioli di ricotta di pecora, piatto della Domenica abruzzese per antonomasia, che emerge esattamente per quello che è: sfoglia d’impasto, ripieno di ricotta, vestito di nulla se non di una mantecatura a base d’acqua e amido. Di intensità e genuinità sconvolgenti, è senza dubbio il piatto più potente del percorso 2020.

Questo genere di ri-facimento non può prescindere da un processo di ricerca incessante e tecnologico, un’interrogazione sulle proprietà degli ingredienti e sul modo di massimizzarle che passa per la sperimentazione pura di lavorazioni pionieristiche: lo chef intuisce il piatto rinato, si inerpica in un viaggio tentando le vie per realizzarlo, applica all’ingrediente tecniche e manipolazioni che gli consentano di pervenire alla meta di un risultato antico attraverso strade inesplorate.

Reale_Niko_Romito_Cocomero

In questo regno della rimaterizzazione prende corpo un altro episodio indimenticabile del menu, il Cocomero e pomodoro, con anguria lavorata ad alta pressione in un cubo concentratissimo e pomodori cotti a vapore; profumo di tutte le estati italiane che saranno e furono.

La sperimentazione però, per sua natura di strada mai battuta, è affare di esito incerto: se in alcuni casi al termine del percorso il capolavoro è servito e non potrà essere migliorato, in altri il risultato presentato come compiuto ha margini di perfezionamento che rimangono ancora da esplorare; per lo meno agli occhi del cliente, non partecipe dei travagli e della fatica dell’elaborazione di alcuni piatti.

Reale_Niko_Romito_Baccala

Per quanto frutto di evoluzioni lunghe a volte anche un decennio, proposte come il Baccalà e peperoni, o il “must” Melanzana e caramello di albicocca lasciano percepire dinnanzi a sé spazio di manovra che concederà ulteriori aggiustamenti.

Anche il poeta che “ha finito”, anni dopo la pubblicazione, quando la mente è gelida, riprende il componimento e sposta punti e virgole, arrotonda parole, inserisce spazi.

Cucina del gusto contro cucina di concetto (?)

Reale_Niko_Romito_Melanzana

Ed eccoci a una nota delicata, quella che porta, in arte, gli estimatori della plasticità e dei colori di Michelangelo a non capire il Dada o la op-art: la cucina deve essere solo tecnica ed esaltazione della sensorialità (con le sue caratteristiche di gusto e capacità di fornire piacere) oppure può offrire spazio anche a gratificazioni di natura filosofica/concettuale? E se può, queste sono da considerarsi semplicemente come suppletive alle doti puramente estetiche dell’esperienza o dei piatti, o possono in una certa misura addirittura sostituirle?

In tal senso, la cucina di Romito può essere agevolmente definita “radicale”, sottolineando da una parte il saldo ancoraggio alle radici (del territorio, della tradizione, del nutrimento, dell’atto fisico del mangiare), dall’altra come questa sia ammantata per intero da una struttura di pensiero che la uniforma, la lega, le restituisce coerenza nell’ambito di un progetto teoretico ampio.

Un piatto è sempre un piatto, al contempo non è mai solo “un piatto”: la semantica della cucina romitiana, studiata nei dettagli come se ogni tassello fosse frammento di un messaggio, rende ciascun elemento proposto, nella sua essenzialità, occasione di riflessione.

Reale_Niko_Romito_Pane

In questo caso, l’emblema non può che essere uno: il Pane, trasformato da servizio collaterale a margine di portate apparentemente più ambiziose, a passo decisivo del percorso di degustazione.

Non vi aspettate sorprese, decostruzioni, texture liquide, salse, ripieni a sorpresa: il Pane di Romito è, per l’appunto, pane.

Pane di ottima fattura, “l’alfa e l’omega” della nutrizione e della civiltà, ma nient’altro che pane.

Ed è palese che, se considererete solo la sua concretezza fattiva e oggettuale di “cosa da mangiare”, deluderà la vostra anima gourmand in attesa di fuochi d’artificio.

D’altra parte, quando vi verrà servito come fosse il più nobile dei piatti, non interrompendo il flusso delle portate di cucina ma inserendo tra esse un punto fisso e pivotale, per il solo fatto di essere stato posizionato nel menu, con i suoi spazi ed i suoi tempi, vi concederà un pretesto per meditare sul suo senso e sulla sua funzione.

Vi scoprirete nudi, e forse vi accorgerete di essere al cospetto di qualcosa che non può essere racchiuso nella notazione tecnica delle perfezioni e delle imperfezioni di cucina e sala, che non dovete valutare solo in base a quanto “vi piace”, che non può lasciarvi indifferenti perché in grado di mettere in moto processi mentali ai quali vi credevate estranei.

L’onda lunga del pasto: infinite domande

Reale_Niko_Romito_Assoluto

Venerdì, 10 Luglio: sapori e le atmosfere di una settimana prima mi lambiscono come maree, e si portano dietro domande.

Come può l’alta cucina essere diversa? Come può travalicare le aspettative? Al di là delle ciance dei comunicati stampa, che significato concreto possono avere i concetti di tradizione e innovazione, e ancor più quella di territorio? Cos’è l’avanguardia, ed è possibile farne in Italia, ove il bagaglio delle tipicità è ingombrante e sacro? E ancora oltre: è possibile che sia proprio nella tradizione e nella territorialità in forma sublimata, anziché nel rinnegamento delle stesse; che risieda la chiave per compiere gesti rivoluzionari per il quadro immobilista delle nostre attitudini culinarie? In un mondo del fine dining sempre più pervaso da trend e imperativi, come può lo chef creare davvero, e cos’è la libertà in cucina? Ancora: cos’è la critica gastronomica? Questa è possibile, cristallizzata com’è nei suoi stilemi, o anche solo morale e permessa? Qual è il compito del giornalista, o di chi scrive di cibo? Il giudizio, ammesso sia una via percorribile, deve adeguarsi a censire le linee guida storicamente cristallizzate nel sistema dei punteggi, delle valutazioni di cucina, cantina e sala; o deve invece essere flessibile e dialogare con l’oggetto estetico, contestualizzarsi e modificarsi fluidamente ad esso mentre questo si fa soggetto?

Non cercate la risposta a queste domande, o non smettete mai di cercarla: alcune richiederebbero di per sé interi volumi di filosofia, certe altre sono koan, gli indovinelli buddhisti senza soluzione finale che accompagnano una vita di meditazione, stimolandola, come interrogativi sempiterni.

 

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