Scusate, parliamo seriamente di Ogm?

Era non numerosissimo ma qualificato, il pubblico presente ieri presso l’Auditorium dell’Ara Pacis a Roma per il convegno “Agricoltura e biotecnologie: il fronte della ricerca tra un’avanguardia silenziosa e un’innovazione superata”. Va detto subito che l’evento è stato organizzato dalla “Task Force per un’Italia libera da OGM” ed era quindi assolutamente di parte, tuttavia la presenza, al lordo di qualche defezione, di diciassette professori universitari, molti dei quali autori in prima persona di studi sull’argomento, appare rilevante. Per chi è abituato al contraddittorio di Internet, un convegno in cui ogni affermazione è supportata da uno o più articoli pubblicati su testate dell’autorevolezza di Science o Nature Biotechnology, rivista peraltro decisamente schierata a favore della tecnologia in agricoltura, genera una sensazione decisamente gradevole.

Ad esempio, quando Rita Levi Montalcini dichiara che gli OGM non hanno mai ucciso nessuno commette un’inesattezza: come dimenticare l’”incidente” del 1989 in cui batteri geneticamente modificati per produrre l’amminoacido L-Triptofano (usato all’epoca come integratore) generarono negli Stati Uniti una serie di casi di sindrome eosinofilo-mialgica che ufficialmente causarono 37 morti e 1535 invalidi permanenti? Un caso isolato di vent’anni fa, certo, ma dovrebbe insegnarci che il principio dell’equivalenza sostanziale sostenuto dall’OMS non basta e vanno condotti test specifici su ogni organismo transgenico. E parliamo di test seri, non di quelli dell’EFSA che prevedono l’utilizzo di 40 topi per 90 giorni di sperimentazione e come se non bastasse sono condotti esclusivamente da ricercatori stipendiati dalle tre multinazionali del transgenico (nota di colore: questi test furono sviluppati da una persona che oggi dirige il marketing di Syngenta, una delle tre multinazionali di cui sopra). Che i rischi esistono lo testimonia l’eccellente intervento del Prof. Mariano Bizzarri, autore di un libro che cita oltre 4.000 riferimenti bibliografici a sostegno delle proprie tesi.

I rischi più gravi, riassumendo, sono:

– Alterazioni nella qualità e nel valore nutrizionale dei cibi: ad esempio, come dimostrato dal Prof. Federico Infascelli dell’Università Federico II di Napoli, il mais transgenico Bt fermenta nel rumine dei bovini a velocità assai superiore di quello convenzionale. Le possibili interazioni gene-nutriente e variazioni di biodisponibilità e metabolismo dei nutrienti suggeriscono che almeno nell’infanzia l’utilizzo di cibi transgenici dovrebbe essere assai prudente;

– Resistenza agli antibiotici: Pietro Perrino, Dirigente di Ricerca del CNR di Bari ed ex direttore dell’Istituto del Germoplasma, cita studi che dimostrano che, per la sua natura intrinseca, il DNA transgenico contiene punti caldi per la ricombinazione ed è 1.000 volte più propenso di quello naturale al trasferimento genico anche tra specie lontane. Questo può creare, ad esempio, piante infestanti con resistenza doppia o tripla agli erbicidi, ma c’è di peggio. I geni marker utilizzati nelle tecniche transgeniche conferiscono forme di resistenza antibiotica, ed è dimostrato che questi geni possono essere trasferiti alla flora intestinale umana. E tutti in medicina, dall’OMS in giù, concordano nel ritenere preoccupante e pericolosa l’ascesa della resistenza batterica agli antibiotici nell’era contemporanea;

– Allergie: le allergie alimentari sono cresciute di circa il 600% negli ultimi 15 anni, la colpa non è certo degli OGM, ma è passato alla storia il caso di quella soia transgenica, modificata con un gene della noce del Brasile, ritirata in fretta e furia dal commercio dopo avere scatenato reazioni allergiche gravi in circa un quarto dei soggetti esposti;

– Effetti tossici e cancerogeni: sì, ci sono prove della riattivazione di linfomi precedentemente in remissione ad opera di transgeni, e non solo: rimando al Bizzarri per approfondimenti.

Ma dimentichiamo, per un attimo, tutti i dubbi sui possibili rischi per la salute e l’ambiente del transgenico. Lasciamoli proprio da parte e ipotizziamo che si tratti di una tecnologia sicura al 100%.

Fatto? Bene.

Partiamo dalle basi: la tecnologia per lo sviluppo di organismi transgenici risale agli anni Ottanta, e la loro immissione sul mercato data 1996. Da allora, si utilizzano esattamente le stesse tecniche ormai obsolete (non entro nel tecnico, ma in tre lustri le biotecnologie hanno compiuto passi da gigante), e relativamente a quattro sole specie vegetali: mais, soia, cotone e colza. E’ interessante notare che il cotone e la colza non hanno praticamente usi alimentari, e per le altre due specie l’uso nell’alimentazione umana è assai ridotto rispetto a quelli energetico e zootecnico. Inoltre, le modificazioni transgeniche sono solo di due tipi: resistenza agli erbicidi e resistenza agli insetti, con prevalenza della prima.

Ah, un’altra nota di colore: il transgene della “resistenza agli insetti” agisce producendo la famosa tossina Bt, considerata dalle solite multinazionali completamente innocua. Peccato che il Dr.Arpad Pusztai abbia dimostrato fin dal 1997 i suoi effetti sui topi, che includono la riduzione della massa di fegato, cuore e cervello unite a immunodeficienze varie. E il già citato studio del Prof. Infascelli ha ritrovato tracce della tossina negli organi interni di capretti nutriti esclusivamente con il latte delle madri, a loro volta nutrite con un 20% di soia transgenica. Ma questa è solo una nota di colore, la domanda spontanea è un’altra: perché, se questa tecnologia produce risultati così straordinari, in 15 anni non è progredita minimamente e viene utilizzata solo per quattro piante, per di più di scarsissima rilevanza alimentare? Gli OGM non dovevano risolvere la fame del mondo?

Ma c’è di più: la tecnologia transgenica è obsoleta. Si basava sull’idea che il DNA fosse il software dell’organismo, unico codice della vita, e quest’idea si è dimostrata sbagliata. Come sottolinea Livio Giuliani, Dirigente di Ricerca dell’ISPSEL, il DNA è piuttosto il firmware, o meglio uno dei firmware, dell’organismo. Ma soprattutto esiste un altro “software”, quello elettromagnetico. Iniziarono Preparata e Del Giudice con i loro straordinari studi sulla natura bifase dell’acqua, proseguirono Zhadin e Novikov scoprendo gli effetti di campi magnetici deboli sul transito degli ioni. A mettere insieme i pezzi ci ha pensato il Premio Nobel per la Medicina Luc Montagnier, che nel 2009 ha dimostrato, assieme a quattro collaboratori, come durante un’infezione batterica compaiano segnali elettromagnetici che condizionano il DNA cellulare finalizzandone l’attività allo sviluppo infettivo.

Gli studi sui trattamenti elettromagnetici delle colture, come quello di Pietruszewski e Wojcik del 2000 [Pietruszewski, S. and S. Wójcik, 2000. Effect of magnetic field on yield and chemical composition of sugar beet roots. Int. Agrophysics, 14: 89-92], sono oltre un centinaio, e mostrano le straordinarie potenzialità di tecniche come l’ICR (Risonanza di Ciclotrone, fenomeno noto da oltre un secolo e di ampio uso medico) in agricoltura: inducendo modifiche non ereditarie, in modo privo di controindicazioni e senza alterare gli ecosistemi, è (o sarà) possibile ottenere gli effetti somatici desiderati.

Ma se nell’attesa dell’implementazione dell’ICR sulle colture (lenta perché non gode dei finanziamenti di multinazionali miliardarie) si volesse utilizzare comunque il transgenico, forse è il caso di chiederci se e quanto ci converrebbe. Attualmente l’UE autorizza il solo Mais Bt, coltivato per circa 75.000 ettari in Spagna e per meno di 20.000 ettari complessivi in altri cinque Paesi (qui i dati). Nel mondo si coltivano circa 100 milioni di ettari di mais, 200.000 in Italia. L’aumento di resa con il mais Bt arriva al massimo al 15-20%, ma in Italia dove le rese sono già fra le più alte al mondo sarebbe un po’ inferiore. Considerando i costi maggiori, il guadagno sarebbe non oltre il 5%, senza contare gli effetti sociali sulla manodopera e il prezzo minore dovuto alle rese più elevate. C’è davvero bisogno di fare tutto questo casino per utili così ridotti, rilevanti soprattutto per i pochi con estensioni significative e per le biomasse? O forse l’agricoltura italiana avrebbe un premio nel continuare a perseguire la via della qualità, piuttosto che quella delle grandi quantità a basso prezzo in cui –anche per motivi di costi sociali e retribuzione del lavoro- non saremo mai competitivi rispetto al Nuovo Mondo?

La risposta la sanno anche le multinazionali: il business della coltivazione transgenica in Europa è molto piccolo, per cui l’interesse maggiore è nel consumo. Ad esempio, l’Italia importa soia per uso zootecnico per circa 1,5 miliardi di euro l’anno, e buona parte di questa è transgenica. Nessuno, però, ci dirà mai se la carne e il latte che finiscono sulle nostre tavole provengono da animali nutriti con prodotti transgenici… o almeno questo è l’attuale orientamento di Bruxelles. Una sfida persa in partenza? Vedremo.

[Fonti: Gazzetta dell’economia, Science, Nature biotechnology, Molecolar lab, Aquarium online, Racine, Efsa, Editori riuniti, Fabio Ghioni, Nejm, Fbae, Grigio Torino, Foiaccademia, Springerlink, Aam Terranova, immagine: Panorama]