Ci siamo fatti prendere con le mani nella marmellata. E stavolta no, non è colpa dell’Europa. Che invece ha fatto di tutto per riparare un vecchio torto, un peccato originale di anglofilia, restituendoci la marmellata di albicocche. E di fragole e di pesche e di fichi eccetera. O meglio, non la marmellata ma la “marmellata”, non la cosa ma la parola. Ma noi non abbiamo saputo cogliere l’occasione. Di che stiamo parlando? Di confetture, terminologie commerciali e legislazione europea. Ma partiamo dall’inizio.
Chi ha rubato la marmellata?
Chi ha rubato la marmellata? Chi – lo – sa?! I più anziani ricorderanno la canzone Johnny Bassotto, dedicata al cane poliziotto che risolve i più efferati crimini domestici. Il pezzo di Bruno Lauzi è del 1976. Solo tre anni dopo, l’Europa mette fuori legge il termine marmellata. O meglio lo confina alle sole preparazioni a base di agrumi. Perché?
È una concessione alla cultura tradizionale (e commerciale) britannica: in inglese da sempre il termine marmalade sta a indicare una conserva di arance o altri agrumi cotti nello zucchero, mentre una preparazione analoga però fatta con tutti gli altri tipi di frutta, si chiama jam. E sì che ce lo dovremmo ricordare, lo abbiamo probabilmente studiato alle elementari, dove marmalade veniva messa nel gruppo dei false friends, i termini ingannevolmente simili come cold che invece vuol dire freddo e amenità del genere.
Confettura a nostra insaputa

Ora fate una prova: aprite il frigo e prendete la marmellata di prugne. Cosa c’è scritto sopra? Esatto, confettura. Sorpresa, vero? Quello che è successo è che la direttiva CEE (eh già, all’epoca si chiamava ancora Comunità economica europea) numero 693 del 1979 imponeva a tutti gli Stati membri la distinzione marmalade-jam, con le relative declinazioni linguistiche. In Italia, dove la normativa è stata recepita nel 1982, questo si è tradotto nella dicotomia tra marmellata (agrumi) e confettura (tutto il resto).
In teoria. Perché in pratica, nessuna legge può imporsi sull’uso corrente del parlato. Per cui la confettura è rimasta sulle etichette. E noi abbiamo continuato a parlare di marmellata, a mangiare marmellata mentre invece stavamo spalmando confettura. A nostra insaputa. Per più di quarant’anni.
La Brexit ha fatto anche cose buone

E poi cos’è successo? Ah già, la Brexit. Che evidentemente ha fatto anche cose buone. Con qualche anno di ritardo, il legislatore europeo ha pensato che forse, beh, non era più il caso di chinare il capo davanti alla perfida Albione, visto che se n’era andata sbattendo la porta. E quindi, mettendo mano a una serie di norme riguardanti succhi di frutta, gelatine, miele e latte disidratato – legge che pertanto è passata alla cronaca come “direttiva breakfast” – ha pensato bene di riconsiderare la questione terminologica. Ecco cosa dice il testo originale, premessa 28 della direttiva 2024/1438, nella traduzione di Google:
In diverse lingue ufficiali dell’Unione, sebbene le denominazioni legali stabilite in tale allegato siano state utilizzate in commercio per designare i prodotti ivi menzionati, i consumatori utilizzano comunemente i termini “marmellata” e “confettura” in modo intercambiabile per riferirsi a confetture di frutta diversa dagli agrumi. Per tenere conto di tale uso comune da parte dei consumatori, ove esistente, e tenendo conto del fatto che la denominazione armonizzata rimane “confettura”, gli Stati membri dovrebbero poter autorizzare, sul loro territorio, l’uso del termine “marmellata” per la denominazione di prodotto “confettura” nel caso di confetture di frutta diversa dagli agrumi.
Ma l’Italia preferisce la conservazione

Evviva quindi, finalmente per una volta i grigi burocrati di Bruxelles vengono incontro alle esigenze del popolo. Però… ovviamente c’è un però. La norma europea stabilisce, se leggete bene, che gli stati membri possono autorizzare (“should be able to authorise”) l’uso del termine marmellata, non che debbono farlo. Perché, attenzione, la norma UE in questione non è un regolamento, che si applica direttamente, ma una direttiva, contenente indicazioni che devono essere recepite con una apposita legge nei vari Stati.
E l’Italia che fa? Colpo di scena, non ne approfitta. All’inizio di ottobre 2025 infatti il Consigli dei ministri approva uno schema di decreto legislativo che recepisce la direttiva UE. Il governo sottolinea l’incremento del contenuto minimo di frutta: per la confettura da 350 a 450 grammi al chilo, per le confetture extra da 450 a 500 grammi. “Tali modifiche volte ad imporre l’aumento del contenuto di frutta minima per chilogrammo sono dirette a promuovere un’alimentazione più sana e consapevole ed a sostenere il mercato della frutta”. Il ministro Lollobrigida ne approfitta per fare un po’ di consueta propaganda sovranista: “Il mercato europeo è un mercato aperto e deve continuare ad esserlo, ma dobbiamo essere consci che noi italiani, noi europei abbiamo livelli di qualità che altre nazioni non hanno. Sapere che la provenienza è italiana, europea o extra-Ue fa la differenza e tutela la qualità del Made in Italy”. Si vabbè, ma la marmellata?
La marmellata niente. Si legge infatti nel provvedimento:
Non è stata invece trasposta la disposizione dell’allegato II, punto 1), lettera a) della direttiva, concernente la possibilità di estendere l’utilizzo delle denominazioni “marmellata” e “marmellata extra” anche ai prodotti qualificati come “confettura” e “confettura extra” (…). La scelta di non recepire tali previsioni è motivata dall’esigenza di non alterare l’attuale assetto normativo nazionale.
Cioè? Non turbare i produttori di confetture, che avrebbero dovuto far ristampare tutte le etichette? Ecco, quando si tratta di mettere in campo una misura che tutela davvero la tradizione, letteralmente il parla-come-magni, il governo viene meno. Preferendo lasciare le cose come stanno: un esempio lampante, ha commentato un mio amico in vena di freddure, di CONSERVAtorismo.
