La pinsa romana è un PAT: l’invenzione di una tradizione perfetta per il supermercato

Dunque la notizia è che la pinsa romana è entrata a fare parte dell’elenco nazionale dei Prodotti agroalimentari tradizionali (PAT). Ma pinsa te (scusate).

La pinsa romana è un PAT: l’invenzione di una tradizione perfetta per il supermercato

Che la pinsa romana non fosse un prodotto della tradizione nel senso (ehm) tradizionale del termine, si sapeva già. D’altra parte è il suo stesso inventore a non tenerne nascosta la storia, recentissima: Corrado Di Marco mette a punto la ricetta di questo lievitato nel 2001. È un prodotto a metà tra una pizza tonda e una focaccia – anche nella forma ovale, leggermente allungata – croccante fuori e morbida dentro. A me non mi è mai sembrato nulla di diverso, giusto un poi più corta, rispetto la pizza romana in pala, che negli stessi anni veniva riportata in auge da Gabriele Bonci.

La pinsa e le pizze PAT laziali

pinse romane

Ma questo inserimento sancisce un paradosso, e lo ufficializza: come può un prodotto essere al contempo tradizionale e recente, patrimonio collettivo e invenzione di un singolo? Per capirci qualcosa dobbiamo andare a vedere cosa sono i PAT, una sigla che a differenza di DOP, IGP e SGT deriva da una normativa nazionale e non europea. Gli elenchi sono divisi per regione, e poi per tipologia di prodotto: per dire, sono 417 solo nel Lazio.

E mentre alcuni hanno l’aria di essere curiosissime produzioni iperlocali (ricoc’ha, serpentone alle mandorle di Sant’Anatolia…) che solo al nominarle stimolano la fantasia e l’acquolina, altri boh sembrano presi da un elenco di alimentari generici (marmellata di agrumi, ciambelle, panini all’olio, ravioli di patate…). Anche solo a guardare le pizze che stanno subito sotto la new entry pinsa in ordine alfabetico c’è da sbalordire: chi non vorrebbe provare la pizza “a gli mattono” di Sezze, o la pizza “bbotata”, la pizza sucia, la pizza rentorta flamignanese, la pizza “per terra”… D’altra parte, devo ancora capire il senso di “pizza rossa, pizza bianca, pizza sfogliata, pizza fritta, pizza con farina di mais…”.

E poi: non è, oltre che un controsenso, anche un danno? Di fatto dire che una cosa è un prodotto tipico locale, tradizionale, significa dire che è di tutti, che è del popolo. Ma anzi, questo è proprio l’effetto desiderato, anzi si può dire che il riconoscimento sia il capolavoro finale di un percorso.

L’invenzione della tradizione pinsa

Base per pinsa

Ci sono due modi, infatti, per sfruttare un’invenzione a livello gastronomico. Per inciso, parliamo di un settore che è caratterizzato da bassa innovazione tecnologica, e da un numero limitato di materie prime: le sostanze commestibili, e quindi gli ingredienti, quelle sono, non se ne possono “creare”. Tanto che da anni gli chef più originali e frignoni lamentano che le proprie idee geniali vengano copiate immantinente: eccerto, non si possono mica brevettare le ricette o ancora peggio gli impiattamenti!

Il primo modo è quello della forza bruta, imperialista: si mettono in campo tutte le barriere legali e commerciali possibili. Lo ha fatto l’inventore del kamut: che ha registrato il marchio, e ha brevettato il seme di questo cereale, assumendone di fatto il controllo mondiale e il monopolio. Poi anche a lui gli ha detto male, alla fine.

Poteva mai il nostro Di Marco fare come il sultano americano del grano khorasan? Poi doveva andare a pinsare (ops l’ho fatto di nuovo) uno per uno tutti gli imitatori e gli usurpatori, una fatica uno stress e un dispendio economico mica da poco. E allora, pinsa che ti ripinsa (vabè ciao) ha scelto l’altra strada: quella del soft power. Niente marchi, niente brevetti. Ha fatto mezzo passo indietro lui, e ha spinto il prodotto. Creandogli un’aura, una necessità: come nelle più tipiche storie di invenzione della tradizione.  

La pinsa romana è da prendere con le pinse La pinsa romana è da prendere con le pinse

A partire dal nome, latino: pinsare significa schiacciare (una delle possibili etimologie di “pizza” viene proprio da lì). E poi il sorprendente, ma dall’altro lato no, richiamo all’Eneide, all’ormai arcinoto passo in cui gli eroi hanno talmente fame che si mangiano anche i piatti, cioè le focacce su cui si usava appoggiare il cibo. Ovviamente non poteva mancare il lato gastronomico del marketing: per cui la pinsa sarebbe povera di grassi, a lunga lievitazione, ad alta digeribilità, fatta con lievito madre e compagnia cantante.  

Negli anni, ormai quasi un quarto di secolo eh, la costruzione del business è andata di pari passo con quella della narrazione. Oggi ce n’è per tutti i gusti, si coprono tutte le esigenze. A partire dalla produzione diretta per il consumatore finale: nella grande distribuzione si trovano le basi per pinsa surgelate, che si possono cuocere in una serie di modi, dagli ovvi forni e tostapane passando per la bistecchiera fino all’immancabile friggitrice ad aria. E se ne trovano pure di buonissime, anche fuori dal reparto frigo. Vi basti pensare che Bonci ha appena lanciato la sua e, che ve lo diciamo a fare, Di Marco lo ha fatto diversi anni fa.

Ma il grosso è altrove. Per bar e rivendite ci sono le basi, per panetterie e pizzerie (pardon pinserie) è disponibile invece il mix di farine: per ottenere la pinsa buona come quella di chi l’ha inventata, cosa c’è di meglio che usare gli stessi ingredienti? Un mix di grani, almeno questo coperto da segreto industriale: ma anche qui, nulla di più moderno, dato che oltre al frumento ci sono il riso e la soia!

E poi ci sono i corsi e le scuole di formazione; infine, per chi proprio vuole fare di testa sua, dal 2016 esiste un’associazione che certifica le pinserie e rilascia un relativo bollino – con tanto di Colosseo, ahò.

Insomma, se non ho preso un granchio, nulla vieta a qualsiasi artigiano alimentare di fare la pinsa, o addirittura di chiamare il suo locale pinseria: ma insomma è difficile che in un modo o nell’altro non si ricada nella rete globale del Di Marco: 7.000 in tutto il mondo, stando al suo sito.

Da qualche anno il termine pinsa è anche ufficialmente entrato nel vocabolario Treccani: come neologismo ok, ma a testimonianza del grande uso. Che dire, ormai una tradizione non si nega a nessuno: come accennato sopra è passato un quarto di secolo, altri 25 anni e veramente potremmo parlare di storia. Una storia da raccontare ai nipoti: lo sai, piccolo Pierdario, quando nonno era bambino la pinsa non esisteva…