Pasta: davvero stiamo per dire addio alla 100% italiana certificata?

Pasta 100% italiana è un claim giovane, al quale ci siamo già affezionati parecchio, oggi "minacciato" dalla scadenza di un decreto transitorio. Proviamo a fare chiarezza sulla faccenda.

Pasta: davvero stiamo per dire addio alla 100% italiana certificata?

Panico. Tragedia. Orrore. Stiamo per dare addio alla pasta certificata 100% italiana. Niente sarà più come prima: tanto vale dimenticare spaghetti e maccheroni, e iniziare a buttare in pentola orzo mondo e quinoa. Tutto vero, nulla da fare? Un attimo. Vero, come ha sottolineato ieri Coldiretti in occasione del World Pasta Day, è che a fine anno scade la norma che prevedeva l’obbligo di indicare in etichetta il paese di provenienza del grano, e quello di molitura (macinazione). Meno vero è che dal 1 gennaio 2022 ci sarà il far west e sarà impossibile risalire all’origine del grano. Vediamo perché.

Innanzitutto, lo assicurano i produttori: “Gli italiani, così come fatto finora, continueranno a trovare nelle confezioni le informazioni sull’origine della materia prima. A prescindere da qualunque quadro normativo in materia, non cambierà la nostra trasparenza nel far sapere al consumatore da dove arriva il grano utilizzato per fare la pasta”, ha dichiarato Riccardo Felicetti, presidente dei Pastai italiani di Unione Italiana Food. Felicetti poi ha sottolineato un’altra cosa, cioè che non è corretto pensare che grano italiano sia sempre sinonimo di qualità, e che il grano straniero sia sempre inferiore, anzi: certo i produttori parlano pro domo loro, ma che dietro all’espressione ci sia un misto di marketing e sovranismo lo avevamo sottolineato anche noi in un pezzo dedicato al vero significato dell’etichetta pasta 100% italiana.

pasta

Non è giusto neanche dire, come fa intendere Coldiretti, che i produttori italiani si rivolgono al grano duro di importazione perché costa di meno: la verità è che l’Italia, la piccola e non esattamente pianeggiante Italia, è comunque il secondo paese al mondo per produzione di frumento duro. Ne produciamo 4 milioni di tonnellate all’anno, di più (quasi il doppio in verità) fa solo il Canada: e ciononostante, facciamo poi così tanta pasta, anche per esportarla, che non ci basta tutto quel grano, e ne dobbiamo importare altri 2 milioni di tonnellate. (Nota polemica en passant: non si capisce perché di default le importazioni siano cattive e le esportazioni siano buone; cioè perché quando compriamo una cosa dal Canada ci stanno fregando, e invece quando il movimento è contrario stiamo distribuendo al mondo eccellenza.)

Ma tornando all’etichetta: il fatto è che quella norma entrata in vigore nel 2018, era contenuta in un decreto del 26 luglio 2017, che era dichiaratamente transitorio: sarebbe dovuto durare fino a fine 2020, poi l’anno scorso è stato prorogato a fine 2021. Nel frattempo infatti è stato emanato un Regolamento UE (775/2018) che attua una norma contenuta nel Regolamento 1169 del 2011, stabilendo delle regole generali sulla indicazione obbligatoria in etichetta – non solo su pasta e riso quindi, come era stato fatto in Italia per mettere una pezza temporanea. Niente panico perciò: la pasta italiana è salva. Piuttosto dovremmo preoccuparci del prezzo del grano che si ripercuoterà di certo sul costo dei maccheroni. Ma su quello, regolamenti e decreti non possono farci nulla: è il mercato, bellezza. O no?