Sono i dettagli a fare la differenza. Frase fatta, retorica spicciola, ma anche coriacea verità. Soprattutto nella narrativa, nell’arte del racconto. È il dettaglio il punto di svolta di una storia, ed è ancora il dettaglio a rendere un piatto riuscito, o meno. In fondo, anche la cucina è racconto, o storytelling come dicono quelli bravi. Non conta essere preparati, conta saperci fare. Dunque, c’è un momento, all’inizio della puntata quattro della quarta stagione di The Bear – diretta da una fuoriclasse come Janicza Bravo – che esplica al meglio il senso di una quarta stagione sul filo del rasoio.
L’episodio è tutto incentrato su Sydney (**Ayo Edebiri**, che migliora a vista d’occhio: è il futuro di Hollywood). L’accompagniamo nel suo day off: è a casa di sua cugina Chantel (Danielle Deadwyler) e, mentre si sta sistemando i capelli, guarda distrattamente un vecchio titolo del 1986, Jumpin’ Jack Flash. Un rumore di sottofondo – e i rumori, nella serie creata da Christopher Storer per FX sono fondamentali – che, però, risulta determinante. Whoopi Goldberg, al suo primo film, diceva in una scena: “Vuoi continuare a lavorare qui o vuoi continuare a vivere?”. Ecco, è questa la domanda che racchiude il senso di The Bear. Potremmo fermarci qui, nel raccontarvela. Potrebbe non servire altro: choose life, come suggeriva Mark Renton in Trainspotting. Pare facile.
La scrittura della serie – già rinnovata per una quinta stagione – e quindi la ricetta, se il paragone culinario si lega allo show, si costruisce poco a poco. Cuoce a fuoco lento, e alza la temperatura solo in determinati momenti. Il ritmo non è costante, ma la serie targata Storer non è mai stato uno show facile (se volete una superficiale mediocrità fate sempre in tempo a vedere _Grey’s Anatomy_ su Disney+). The Bear è un discorso a fluire, e la quarta stagione arriva al più sconvolgente dei turning point emotivi: da una parte chef Carmy (Jeremy Allen White) si ritrova a dover cambiare idea sul menu, così estremo da essere insostenibile; dall’altra la cucina del Bear ha due mesi di tempo per risollevare i conti, o si chiude.
The Bear: il ristorante come luogo di confronto
E poi ci sono i pensieri di Sydney: accettare l’allettante offerta di chef Adam (Adam Shapiro), tradendo, di fatto, la sua disfunzionale, iraconda e geniale famiglia lavorativa? The Bear, tra le migliori serie tv contemporanee, fotografa il tempo – altro elemento cardine – come fosse un’istantanea (ogni secondo conta, e quindi vive), proiettando le nevrosi di una cucina infuocata: il cuore di un ristorante che punta alle stelle; un ristorante come approdo sognante per quelle persone che, il tempo di una cena, scappano da una vita deludente. Per cugino Ritchie (Ebon Moss-Bachrach), il ristorante è aggregazione, confronto, dialogo, parola. Un effimero escamotage alla solitudine. Quella solitudine che vibra negli occhi spalancati di chef Carmy. Occhi lucidi, e una smorfia simile ad un sorriso. Finalmente. Carmy, oltre il genio, oltre la perfezione. Immerso in una tossicità professionale capace di consumarlo, e consumare tutti coloro che gli girano attorno.
Perché c’è una cosa che The Bear mostra e dimostra: il cosmo parallelo di una cucina. Le sue dinamiche, le sue ossessioni, le sue regole infrante, la sua rabbia incontrollata. La cucina è un universo a sé, un lavoro che aggancia tutti e cinque i sensi, riassumendoli in una portata che spalanca cuore e palato. Come la pera disidratata con caramello alla viola preparata da chef Marcus (Lionel Boyce): la ferma delicatezza di un gusto perfetto. Quanta applicazione, quanto sudore. Ma ora le cose cambiano, devono cambiare. Carmy, come dice chef Tina (Liza Colón-Zayas), ha “bisogno di sentirsi dire le cose ad alta voce”. Carmy deve pensare al bene del gruppo, e quindi al bene del ristorante e allora al bene di quella famiglia allargata che urla, sbraita, piange, ride, si consuma come l’aglio immerso nell’olio bollente.
Di contrasto e di attrazione. Come la miglior ricetta stellata
Fin dalla prima stagione, e correndo verso i dieci episodi che compongono la quarta, The Bear ha giocato d’attrazione e di contrasto: il luogo, Chicago, la soundtrack (e la quarta stagione è poesia per le orecchie: Lou Reed, Otis Redding, Van Morrison, Bob Dylan, Pretenders), il blu, che domina la scena, quasi a calmare gli spiriti che bollono come l’acqua sul fuoco. Aggregazione ed esperienza, dicevamo: l’ideologia di un ristorante di alto livello dietro lo score di The Bear, e il concetto di quei professionisti che sacrificano se stessi mentre gli altri godono del tuo lavoro. Una spietata legge del contrappasso per quelle rinunce che riempiono i minuti svuotandoli, però, del loro senso più puro. Che vita è, se vissuta a metà?
The Bear 4 è la stagione delle domande, quelle di Carmy, di Sydney, e pure le nostre. Del resto, la serie funziona perché parla di noi, e ci aiuta a ricomporre il profilo delle emozioni. Come quando mangiamo il nostro piatto preferito: zona di comfort, grancassa in cui i ricordi esplodono, macchina del tempo che riporta indietro ai giorni più belli. E allora bisogna fare una scelta, mentre il rumore della metropolitana passa sulla sopraelevata. Bisogna pensare in piccolo, perché solo così la prospettiva cambia, e forse migliora. Il tempo non è infinito, ma forse è magico, come cantava Doris Day. Dunque, non resta che accettarlo, per accettare noi stessi. Puntando al cambiamento come rinascita. Tanto, alla fine, i conti non tornano mai.