Mi autodenuncio: quest’anno, per la prima volta, ho rinunciato alla battaglia per una mensa scolastica dignitosa. E non riesco a non pensare che non sia un problema mio, né dei miei figli, ma un problema di tutti.
Sono mamma di due bambini delle elementari, e sin dalla scuola dell’infanzia la mensa è stata una delle questioni che abbiamo avuto più a cuore. Forse per colpa di una sorta di deformazione professionale (se lavori con il cibo, ti abitui facilmente all’idea che il cibo debba essere buono), forse per una certa selettività alimentare di mia figlia più grande, la questione mensa è entrata in casa rapidamente.
Adesso tocca fare una premessa, ché già so che i commenti sono dietro l’angolo. Quando si parla di cibo “buono”, non si intende ostriche e caviale (non vivo mica in Senato, suvvia), né necessariamente frutta e verdura bio e coltivata localmente (magari!). Si intende un servizio dignitoso, che dia ai bambini un pasto equilibrato, che vada vagamente incontro ai gusti di un bambino medio, e che incontri le regole base dell’educazione alimentare, che è una delle tante cose che sarebbe bello che i nostri figli imparassero a scuola (e non lo dico soltanto io, eh). Complicatissimo, direte voi. Necessario, auspicabile e doveroso, rispondo io.
La mia esperienza con le mense scolastiche
E invece, la mia esperienza con le mense scolastiche, purtroppo, non è mai stata neanche lontanamente all’altezza delle aspettative, e anzi peggiora di anno in anno. E non solo la mia, evidentemente, se durante l’anno scolastico i giornali si riempiono di casi di cronaca più o meno gravi, e se perfino la mensa del Vaticano pare essere così così.
Alla scuola materna, devo ammetterlo, la mensa interna ci ha garantito un servizio di qualità più alta, di cui in effetti ci siamo lamentati solo di tanto in tanto. Il problema vero è arrivato alle elementari. Per quattro anni io e mio marito abbiamo pagato un pasto che non veniva consumato, con nostra figlia che tornava a casa affamata dopo aver mangiato solo un panino. E se potevamo pensare che il problema fosse lei e una sua certa predisposizione a essere un po’ troppo schizzinosa con il cibo, c’è stato un momento preciso in cui abbiamo avuto la certezza che non fosse così. Ad un certo punto della nostra storia, due anni fa, anche il più piccolo è andato alle elementari. Un bambino che di problemi con il cibo (con qualsiasi tipo di cibo) non ne ha mai avuti. Uno di quei bambini che mangia tutto e volentieri, l’antitesi di sua sorella. Eppure, anche con lui ha iniziato a ripetersi sempre più spesso il racconto di paste cotte male (o molto crude o completamente scotte), di verdure totalmente scondite e insapori, di pasti rifiutati o lasciati.
Fino a quando quest’anno la situazione è ulteriormente peggiorata, al punto di diventare insostenibile. Non solo per noi, evidentemente, ma anche per molte altre famiglie con cui ci siamo confrontati e che hanno confermato la nostra percezione di un servizio mensa totalmente non soddisfacente e rifiutato dai bambini, con la conseguenza di quantità importanti di cibo che quotidianamente veniva gettato nella spazzatura.
Ho ceduto al pasto domestico, e non avrei voluto farlo
Personalmente ho provato a occuparmi della questione. Con le mamme, con le maestre, con i rappresentanti di istituto, con le istituzioni. Ripetutamente. Ma la sensazione è quella di una certa arrendevolezza a un sistema che funziona così da troppo tempo (ricordo le battaglie di mio padre per la mia mensa scolastica, un milione di anni or sono) e a cui ormai ci siamo in qualche modo abituati.
Si è sempre fatto così, e non è mai cambiato più di tanto, o per un tempo sufficiente. E siamo tutti sopravvissuti, in fondo. Un po’ come succede in politica: non vado a votare, tanto chiunque vinca è sempre uguale. E così, alla fine, rinuncio consapevolmente e passivamente al mio diritto al voto. O al mio diritto (e a quello dei miei figli) ad avere un servizio mensa dignitoso.
Alla fine, dopo un lungo anno di discussioni (con mio marito, con i miei figli, con le mamme, con la scuola) i miei bambini l’anno prossimo passeranno al pasto domestico. Rinunceremo dunque al servizio di mensa in favore di un pasto preparato a casa da noi, con un’organizzazione che speriamo di essere in grado di sostenere per evitare che finisca troppo spesso a panini al prosciutto (altrimenti, è ovvio, la nostra scelta non avrebbe granché senso). Non lo faremo solo noi, lo faranno moltissimi dei loro amici e compagni di classe, e in molti non lo faranno semplicemente perché non riescono a inserire anche questo impegno nella loro organizzazione quotidiana.
Noi ci proveremo: cercheremo di pianificare, di preparare nei weekend, di confezionare e insacchettare, per garantire ai nostri figli un servizio che dovrebbe essere garantito (meglio) dalle istituzioni. Ma non è neanche questa la cosa che mi pesa di più. La cosa che mi pesa è aver smesso di combattere per un servizio migliore. Aver rinunciato passivamente dicendomi che posso farlo io, con un piccolo sacrificio (quello che magari altre famiglie non riescono a fare). Perché io il pasto domestico non lo vorrei fare. Non lo considero (per molti motivi) educativo, non lo considero semplice, non lo considero risolutivo. Ma al momento mi sembra l’unica opzione per non buttare soldi, non sprecare cibo e far sì che i miei figli tornino a casa se non sazi almeno non senza forze perché dell’intero pasto offerto hanno mangiato solo il pane.
Il pasto domestico è una sconfitta, ne sono certa. Non mia, ma di tutto il sistema.