Perché non riusciamo a superare il suicidio di Anthony Bourdain

Anthony Bourdain: perché il mondo del cibo non riesce ad accettare il suicidio di uno dei suoi protagonisti migliori

Perché non riusciamo a superare il suicidio di Anthony Bourdain

Coccodrillo non rende l’idea. Li chiamano obituary, sono gli articoli che i grandi giornali anglosassoni scrivono per tratteggiare la figura di una celebrità scomparsa.

Non sono facili da scrivere, è forte il rischio di scadere nell’agiografia consegnando ai posteri il santino del personaggio che è venuto meno.

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Leggendo lo stuolo di commenti sulla morte di Anthony Bourdain, scomparso venerdì a 61 anni, scorrendo i tweet come gli articoli più lunghi e dettagliati, colpisce il senso di straniamento che il suicidio del cuoco, narratore e viaggiatore americano ha provocato sia nei numerosi ammiratori che nelle persone che lo conoscevano fugacemente.

Il New Yorker, raffinato mensile americano consacrato al culto della letteratura contemporanea, ha tributato a Bourdain, nato nel 1956 a New York, diploma al Culinary Institute of America nel 1978, executive chef della Brasserie Les Halles di Manhattan dal 1998 e poi celebrità universale per una lunga serie di articoli, libri e serie tv (A Cook’s Tour, No Reservations fino a Parts Unknown), uno degli omaggi più intensi.

Non a caso, proprio per il New Yorker la “rockstar originale del mondo culinario”, uno dei tanti soprannomi di Bourdain, aveva scritto nel 1999 “Do not Eat Before Reading”.

Il racconto squarciava il velo di eleganza dei ristoranti lussuosi, scoperchiando un vaso di Pandora infernale. L’anno dopo quell’atto d’accusa sarebbe diventato “Kitchen Confidential”, il suo libro più bello e di maggior successo.

Bourdain, ha appena scritto il New Yorker, era letto da milioni di lettori e visto da milioni di spettatori, una figura che aveva saputo conquistare anche chi con il mondo del cibo non ha nulla a che fare.

Sorpreso e infastidito dall’etichetta di celebrity chef che gli era stata appiccicata nonostante da anni ormai non toccasse più un fornello, Bourdain diceva di sè che —nella migliore delle ipotesi— “avrebbero dovuto descriverlo come un cuoco”.

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La ragione del successo va cercata nell’assenza di distanza con i lettori e gli spettatori –ma è corretto dire con ognuno di noi, alla fine. “Bourdain era tuo fratello, tuo zio, un papà incredibilmente figo, l’amico sincero e intelligente che uscendo da un locale dopo una birra di troppo era capitato davanti a qualche telecamera, e aveva deciso di restare lì”.

Sempre disponibile, puntuale e preciso (arrivava in anticipo di 20 minuti agli appuntamenti), non si nascondeva dietro muri di addetti stampa ma anzi era generoso, anche nella scrittura di articoli che gli venivano richiesti dai giornali, ai quali, invece di qualche pezzo scritto dal ghost writer di turno, mandava commenti acuti e pertinenti.

Era irriverente, onesto, curioso, mai accondiscendente, e su queste che per noialtri qui sono grandi doti, aveva costruito la sua carriera di narratore della verità.

Si era rivelato uno scrittore insospettabilmente abile, che in tutti i suoi libri (compresi i gialli “Bone in the Throat” e “Gone Bamboo”) raccontava i personaggi senza edulcorarli, azzerando filtri o censure.

Da lettore implacabile qual era, attento anche ai dettagli insignificanti, non era tanto la star delle sue serie tivù —in particolare di Parts Unknown— quanto uno degli autori. Con una sensibilità spiccata per il dietro le quinte, per ciò che di solito nel piccolo schermo non si vede.

Conosceva bene i ferri del mestiere, nelle sue scorribande per il mondo si era imposto di raccontare agli spettatori solo ciò che viveva, esattamene per come lo aveva vissuto. Tutto filtrato dalla battuta fulminea e l’andatura sghemba che la vita, più che uno spettacolo televisivo, scolpisce con il tempo.

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I suoi programmi, incrociati magari per sbaglio anche solo una volta, restano nello sguardo di chi li ha visti: racconti di cibo, sorrisi stropicciati da rockstar, magari una birra, qualche facezia e l’immancabile colonna sonora scelta di persona.

Se all’inizio erano sesso, droga e gli eccessi in cucina a sfamare la curiosità dei lettori, contribuendo a costruire intorno a Bourdain l’immagine di cuoco maledetto, in seguito è prevalso il ruolo di grande divulgatore del cibo.

I suoi viaggi uniscono narrativa e cucina in modo nuovo. Nell’episodio più noto di “Parts Unknown”, Bourdain parla di guerra del Vietnam seduto su uno sgabello di plastica in un modesto noodle shop di Hanoi, mangiando bún chả con Barack Obama, all’epoca il presidente degli Stati Uniti, insolitamente coinvolto in una cena da sei dollari, birra compresa (Bourdain aveva raccontato l’episodio a Anderson Cooper, noti anchorman della CNN).

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Nonostante il successo incredibile Bourdain ha costantemente lottato contro depressione e dipendenze. Figlio di genitori separati, due matrimoni a sua volta e una figlia, difendeva il privato con le unghie, come quando i tabloid si erano avventati sulla separazione dalla seconda moglie, l’italiana Ottavia Busia (madre di sua figlia), o come quando era venuta alla luce la relazione con Asia Argento.

Il clamore seguito al coinvolgimento dell’attrice italiana nello scandalo Weinstein e l’accorata difesa della compagna da parte di Bourdain —proprio lui con quel passato da sciupafemmine e conquistatore compulsivo— avevano intenerito gli estimatori vecchi e nuovi.

“Con il suo incrollabile sostegno ad Asia Argento si era conquistato la curiosa fama di attivista, un’autorità morale dal profilo aperto ma intransigente”, ha scritto il New Yorker.

Abbiamo amato Anthony Bourdain e continueremo a farlo per la capacità di guardare alle cose e alle persone con profondità e schiettezza. Per la confidenza che sentivamo con lui quando raccontava il mondo, quello della cucina in particolare, senza pregiudizi. Osservandolo e poi inquadrandolo per noi dalla porta di servizio, la porta da cui si esce per buttare la spazzatura.

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Quello che chiamavamo cuoco rockstar era un bravo antropologo. La sua capacità principale è stata sempre quella di raccontare la verità.

[Crediti: Helen Rosner, New Yorker]