Il lievito di birra è naturale, per la verità

Perché il lievito di birra è naturale, nonostante si consideri tale (solo) il lievito madre. Zuccheri semplici, tempi lunghi, la produzione industriale e parecchi preconcetti dovuti anche a tendenze di panificazione e marketing: è ora di spiegare bene il panetto tanto vituperato.

Il lievito di birra è naturale, per la verità

Il lievito di birra ci sta ghostando? Fa l’offeso? Si prende la sua rivincita, dopo che per anni abbiamo associato la parola “naturale” al cugino lievito madre. Lo abbiamo trattato male, come si considera il prodottaccio industriale: ora che tutti lo vogliono, per panificare occupando il tempo come dei disperati, in tempi di Coronavirus, lui non si fa più trovare.

In verità sta succedendo una cosa assolutamente normale, ma che non credevamo possibile rispetto a quei cubetti puzzolenti: la domanda è talmente superiore all’offerta, che invece di far schizzare i prezzi in alto, ha provocato la carestia. Chi se lo immaginava, che la curva del lievito di birra fosse così anelastica? Certo per un prodotto naturale riusciamo a figurarcelo: se un campo di grano produce tot tonnellate, non gliene si può chiedere di più. Ma una roba chimica, industriale, fatta in laboratorio? Ecco, è proprio questo il punto: l’equivoco ruota attorno al concetto di “naturale” vs “artificiale”.

Saccharomyces alla riscossa, l’ ingrediente bistrattato si prende una rivincita contro il contendente nobile, negli ultimi anni oggetti di un culto irrefrenabile: il lievito madre. Di questo tema, l’assurdo razzismo contro il cubetto compresso, ci siamo già occupati, spiegando come, tecnicamente, non sia razionale considerare la pasta madre migliore per pane e pizza. Oggi vi spieghiamo le cause di questo pregiudizio e perché esso è completamente ingiustificato.

Lievito madre: una religione

La religione della pasta madre ha un indubbio merito storico: quello di aver riportato in vita un settore vicino al collasso, sia dal punto di vista economico che culturale. Lo ha fatto prima favorendo la nascita di una generazione di giovani home baker agguerriti e di estrazione trasversale; poi trasformando molti di loro (un nome su tutti: Forno Brisa) in panificatori professionali rivoluzionari, e di rimbalzo cambiando la vita e il lavoro dei più open minded tra i panettieri già presenti sul mercato. L’altra faccia della medaglia, è stato l’eccesso. Da un lato, quello dei dilettanti, l’eccesso di fiducia, la convinzione che fare il pane con la pasta madre fosse più semplice, perché più naturale: e via di filoni gommosi e pesanti, di pagnotte stralievitate e acidissime.

Dall’altro lato, quello dei professionisti, l’eccesso di marketing. Questo è stato l’effetto di un’onda più grande, in campo gastronomico e non solo: quella del ritorno alla natura. Dopo l’epoca della fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, dal secondo dopoguerra agli anni 70, un’epoca in cui il cibo è diventato industriale col favore popolare, e quindi vai con margarina e carne in scatola e sofficini, il pendolo ha iniziato a muoversi in senso opposto: l’apice, secondo molti, è stato lo sbarco in Italia di McDonald’s e la conseguente nascita di Slow Food (1986).

Secondo lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, questi movimenti sono ciclici e molto più di lungo periodo: nel medioevo, forse perché la Natura era una forza ancora molto vicina e ostile, si riteneva commestibile solo il cibo processato, e quanto più era artificioso tanto più aveva valore. Oggi riteniamo che gli alimenti vadano toccati il meno possibile, cotti velocemente, speziati leggermente eccetera: la Natura è più madre che matrigna. È un fatto di salute? È un fatto di gusto, e di cultura.

In qualunque punto dell’oscillazione del pendolo ci troviamo, però, ci sono elementi positivi e altri meno. Viva il cibo biologico, ma attenzione al finto bio; ben vengano le etichette dettagliate, ma il contraltare sono gli “yogurt senza glutine” (?!); ci piace assai la pasta madre, ma per favore non mettiamola nel gattò di patate.

Lievito di birra: il nemico di tutti, ma non dei pizzaioli napoletani

pizza

Il lievito di birra è diventato a un certo punto il nemico pubblico numero uno. Va dato atto ad alcuni operatori del settore di aver resistito alle sirene del marketing anche nei periodi più bui per il ldb: innanzitutto i pizzaioli napoletani, più legati alla tradizione e più restii ad abbandonarla per un pezzo di pasta madre. Qualcuno per la verità è passato al lato gourmet della forza, i cui comandamenti prevedono prodotti DOP se non de luxe, farine bio o addirittura integrali, e lunghe lievitazioni a volte innescate da pasta madre.

(Poi c’è chi è rimasto in mezzo al guado, adottando intelligentemente solo alcune innovazioni, le più sensate. E c’è chi con l’ambiguità ci gioca. Gino Sorbillo, forse il pizzaiolo più famoso al mondo, ha chiamato “Lievito Madre” la sua catena di locali di ultima generazione. O meglio, Lievito Madre è l’espressione che campeggia a caratteri cubitali nei comunicati stampa e nei derivati articoli tutto attorno al world wide web. Poi se andate nelle pizzerie in 3D, le insegne portano il nome Sorbillo, e lievito madre sta scritto piccolino su qualche cartello, o neanche. Se infine poteste penetrare nel chiuso dei laboratori, chi sa se riuscireste a trovare traccia di una brocca o di un secchio con questo mitico lievito madre – dev’essere un segreto di cui Gino è molto geloso, dato che non lo fa vedere neanche in una delle migliaia di foto sparse per l’internet.)

Viva la pasta madre!

Il merito va anche ad alcuni pizzaioli-divulgatori come Renato Bosco, che da un lato ha fondato l’associazione “Figli di pasta madre (viva)” – come se ci fossero paste madri morte – dall’altro però, da qualche anno, usa nei menu e nelle ricette l’espressione “lievito naturale” per indicare il lievito di birra. Una presa di posizione forte dal punto di vista ideologico, ma del tutto fondata dal punto di vista scientifico. E qui veniamo al dunque (azz, direte voi, e questa che cos’era, la premessa?): il motivo per cui abbiamo parlato di nemesi nei confronti della pasta madre non deriva solo dal boom dei consumi del lievito di birra, ma precisamente dai motivi dello shortage. Come ha spiegato il presidente dell’associazione produttori di lievito, il procedimento per fare i panetti è soggetto a un limite fisiologico, naturale: quello della riproduzione dei funghi.

Lievito di birra: zuccheri semplici, tempi lunghi

Come funziona? Saccharomyces cerevisiae è un organismo unicellulare che si nutre di zuccheri semplici. Per una serie di motivi, tra cui la sua larga disponibilità e il suo rapido processo vitale, è uno degli organismi più studiati dagli scienziati, insieme al moscerino della frutta. Come tutti gli esseri viventi, si nutre, cresce, si riproduce (per divisione cellulare) e muore: quando una colonia è immessa in un nutriente – ovvero, una vasca di acqua e melassa per i lieviti industriali, ma anche un impasto di acqua e farina per la vostra pasta madre – in un primo momento i microbi non fanno niente, si adattano al nuovo ambiente, è un po’ come se dovessero capire dove sono. Poi si guardano attorno e realizzano che, wow, qui è pieno di cibo: inizia l’abbuffata. Più mangiano più crescono, più crescono più si moltiplicano – letteralmente, secondo una progressione esponenziale, perché dato che si riproducono per divisione, ogni tot di tempo il numero delle cellule raddoppia. A un certo punto però c’è anche qualcuno che inizia a morire, e nel periodo in cui le cellule decedute sono pari a quelle che nascono, la popolazione è costante. Infine, quando il nutriente si esaurisce, i morti superano i nati e il numero complessivo diminuisce.

Immaginatevela come una curva: stasi, crescita, picco, plateau, discesa (ogni riferimento a grafici relativi alla diffusione di virus è casuale, ma utile). Quello che fanno le aziende produttrici, ma anche voi quando rinfrescate il lievito madre, è aspettare il picco, e poi dare alle colonie così moltiplicate ulteriore nutrimento, ovviamente in misura maggiore.

Nelle industrie, questo avviene secondo un procedimento controllato al millimetro: si parte da una coltura in provetta, che viene travasata in vasi sempre più grandi, fino ad arrivare a enormi silos. Se volete saperne di più, ci sono video come quello del produttore Lesaffre o spiegazione scritte come questa di Red Star: ci vogliono attrezzature, macchinari, persone, processi di sanificazione e abbigliamento teso a evitare ogni contaminazione (cosa vi ricordano quelle tute e quelle mascherine?). Ma soprattutto: ci vuole tempo.

Lo stesso tempo che (ricordate tutte i discorsi iniziatici di quando siete entrati nella setta?) è neccessario per il mantenimento e la preparazione della pasta madre. Ecco, allora: il lievito di birra è lievito naturale. Certo, magai i colli di bottiglia saranno anche altri, magari nel processo produttivo e distributivo c’è qualche viscosità: non è che il lievito di birra di tutto il mondo è finito, prova ne sia che i panettieri e i laboratori vengono riforniti, e che il lievito sfuso che comparso l’altro giorno nel mio supermercato era proprio quello in pezzatura grossa per uso professionale.

D’altra parte, confessatelo: per quanto vi piaccia pizzificare il sabato sera a casa, se costretti con le spalle al muro, preferireste rinunciare a quello o alla baguette che, carestia microbica o meno, il vostro panettiere vi fa trovare fresca ogni mattina?

Ma insomma, l’imbuto iniziale è decisivo: il lievito di birra ha i suoi tempi. Ora lo sapete. E la prossima volta che vi capiterà di incontrarlo, si spera il più presto possibile, lo guarderete con un altro rispetto.