Quando si parla di cucina italiana come Patrimonio Unesco si parla di cultura: non di ricetta, non di competenza o filiera agricola, non di pratiche o pratica specifica e di certo non di prodotto in senso lato. Cultura, per l’appunto: grandezza che trabocca e porta dentro di sé il rapporto, l’identità, il DNA.
Vale però la pena ricordare che l’Unesco riconosce anche una serie di pratiche e tradizioni culinarie nel mondo come Patrimonio Culturale Immateriale, e lo fa – com’è ovvio – ben prima di quanto capitato con la cucina italiana. Le iscrizioni non riguardano (quasi) mai ricette o “piatti” isolati, ma pratiche, rituali, tecniche o modalità di interpretazione del cibo.
Le altre “cucine” premiate dall’Unesco

Le virgolette sono un obbligo, considerate le circostanze: “cucine” è un termine abbastanza ampio da permetterci le necessarie eccezioni e abbastanza preciso da fare intendere di cosa stiamo parlando. Rimanendo all’interno dei confini dello Stivale abbiamo l’arte del pizzaiuolo napoletano e, forzando un poco il criterio di ricerca, la Dieta Mediterranea (che per l’appunto “condividiamo” con Spagna, Grecia, Marocco e Portogallo; e comprende anche saperi su coltivazione, allevamento, raccolta, preparazione, condivisione e conoscenza dell’ambiente).
Il “pasto gastronomico dei francesi” è diventato Patrimonio Unesco nel 2010 e ha un alone semantico che tocca quello della più recente “cucina italiana”: al suo interno troviamo l’atto sociale del “pasto francese” (sequenza dei piatti, ruolo del vino, preparazione e consumo come evento conviviale) come pratica culturale simbolica. Insomma: si parla di cerimonia, di regole non scritte. Definirlo “rapporto con il cibo” è un salto logico immediato.
In questo insieme semantico troviamo ancora la cucina tradizionale messicana e in particolare quella Michoacán, con cui si intende – e citiamo direttamente il sito Unesco – un “modello culturale completo che comprende agricoltura, pratiche rituali, competenze secolari, tecniche culinarie e costumi e usanze ancestrali della comunità”; il Washoku, una serie di pratiche legate alla cucina tradizionale giapponese con enfasi su stagionalità, equilibrio, armonia visiva e nutrizionale; e i “Riti e pratiche alimentari afro-brasiliani del Candomblé“, in Brasile.
Uscendo dal più o meno definito criterio di categorizzazione culturale e spostandoci verso l’universo del prodotto gli esempi si moltiplicano. Per la Corea del Sud c’è il Kimjang, processo tradizionale di preparazione e fermentazione del kimchi svolto in comunità familiari o di villaggio; c’è il rituale di preparazione e ospitalità legato al caffè arabo; e c’è il Lavash, pane tradizionale del Caucaso e Asia occidentale, con Armenia, Azerbaigian, Turchia e Iran che condividono il riconoscimento.
Ci stiamo spostando da concetti forse più fumosi al prodotto come asset culturale: nel 2020 è stata la volta dei processi, rituali, saperi e contesti sociali legati alla preparazione e consumo del couscous nelle regioni del Maghreb; nell’autunno del 2022 abbiamo visto la baguette francese e l’harissa, il più celebre condimento della Tunisia, fare innamorare l’Unesco, e nell’anno successivo anche il ceviche peruviano.
