Aprire un ristorante: perché lo fanno tanti italiani e perché chiudono subito

Aprire un ristorante: perché lo fanno tanti italiani e perché chiudono subito

Di recente avete deciso di aprire un ristorante o un bar? Ok, non vogliamo fare i menagramo, ma c’è il 27 per cento di probabilità che fra due anni vi ritroviate a chiudere bottega. Non sono dati che tiriamo noi fuori dal cappello del cuoco, ma quelli raccolti dalla Fipe-Confcommercio e citati dal Corsera, che ieri ha fatto un interessante punto della situazione sullo stato dell’arte dei giovani italiani che aprono bar e ristoranti.

Che pure ce la mettono tutta, la buona volontà: nei primi tre trimestri del 2014 bar e ristoranti sono spuntati come funghi, basti pensare che a Milano hanno aperto 679 esercizi, a Roma 687 e a Torino 576, circa due al giorno.

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La ristorazione attira soprattutto le nuove leve: in base ai dati, nei primi nove mesi del 2014 circa 5500 giovani con meno di 35 anni di età avrebbe aperto un bar, un ristorante o un take away nelle principali province italiane.

Senza però essere capaci di fare i conti con l’oste, ovvero con loro stessi.

Forse un po’ costretti a inventarsi il lavoro, forse ispirati dalla creatività oggi attribuita a tali generi di attività, forse attratti dall’idea che sia semplice gestire un bar e un ristorante, ecco che si lanciano, tanto per inventarsi due cocktail o spadellare in cucina non ci va molto… giusto?

Sbagliato: più di uno su quattro è destinato a chiudere entro due anni, percentuale che sale sempre di più nel caso degli under 35.

Insomma, non siamo nati tutti imprenditori, soprattutto non tutti si dimostrano all’altezza; dopo aver speso una media di 125 mila euro per aprire un ristorante (800/850 euro al metro quadro) o 56 mila euro per un bar (700 euro al metro quadro), alcunii giovani imprenditori prendono il timone della loro start-up gastronomica senza trovare però la via verso il successo.

Una delle cause principali di fallimento – come sostenuto dalla stessa Fipe – è la mancanza di un progetto reale che sappia dare credito alla propria attività, quello che viene chiamato concept, ma che altro non è che l’identità di un locale, che va poi a definire il target di riferimento e l’offerta commerciale.

Molti navigano invece a vista, senza un rotta ben precisa, finendo poi contro l’immancabile iceberg delle dura realtà.

Per avere successo non basta la voglia di fare e di impegnarsi, serve anche un’idea vincente e un chiaro progetto imprenditoriale, cosa che spesso manca ai giovani, entusiasti sì, ma incapaci di farsi due conti a lungo termine.

Le maggiori possibilità di sopravvivenza si ritrovano statisticamente nei bar con pasticceria artigianale, nei bar dediti all’happy hour, o negli esercizi che puntano molto sulle realtà e tradizioni territoriali, oltre che sulla geografia e le abitudini delle persone del luogo.

Insomma, aprire un chiosco estivo di polenta fumante sulle spiagge di Pantelleria potrebbe non essere un’idea vincente.

Un altro passo falso è quello di sottovalutare i costi: non solo gli esosi costi di investimento per aprire il locale – spesso sostenuti da quello che è diventato l’unico vero modello di welfare del nostro Paese, ovvero nonni e genitori – ma anche i successivi costi di mantenimento, nonché quelli relativi a personale qualificato e specializzato, necessario dopo essersi resi conto che “inventarsi due cocktail o spadellare in cucina” non è poi così semplice una volta che ci si ritrova dall’altra parte del bancone.

I costi per un cameriere possono arrivare a 1200 euro, quelli per uno chef o un pizzaiolo in gamba anche a 4000 mila euro, cui si aggiungono le tasse imposte dal Bel Paese, fra cui la Tari, ormai divenuta un salasso per gli esercizi commerciali.

Costi che si abbassano sensibilmente per un imprenditore straniero, che solitamente è in grado di trovare manodopera famigliare o a prezzi molto più bassi rispetto al costo medio di un lavoratore italiano.

Così, alla fine, nonostante entusiasmo, voglia di fare, di investire e di darci dentro, il saldo complessivo è sempre negativo e sono più gli esercizi che chiudono rispetto a quelli che aprono.

Alla faccia delle decrescita felice, che per qualcuno tanto felice non è.

[Crrditi | Corriere, Dario Di Vico]