Jamie Magazine, la rivista italiana di Jamie Oliver, è tanto fumo e poco roast beef

Jamie Magazine, la rivista italiana di Jamie Oliver, è tanto fumo e poco roast beef

Che bello! C’è fermento nell’editoria italiana area food! Prima il restyling di Cucina Italiana del neo direttore Ettore Mocchetti (si vabbè, vedrai che aggiustano il tiro). Poi il lancio del sito di Sale&Pepe. Stavo giusto domandandomi cosa ci avrebbe riservato il futuro quand’ecco approdare nelle edicole Jamie, edizione italiana del non-patinato magazine firmato da Mr. Oliver, ex enfant prodige diventato splendido golden boy, che trasforma in oro tutto quel che tocca, purché commestibile.

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Giusto perché non ci siano fraintendimenti, la rivista non è patinata perché stampata su carta (riciclata?), giustamente ruvida, opaca e sostenibile.

Nel giorno di uscita la cover è rimbalzata sui social con il suo claim furbetto, “Cucina facile e divertente”, un invitante cosciotto di agnello e strilli fluò inneggianti alla Pasqua e alla primavera. Carina, davvero. Tanto che mi ha convinta a frugare nelle tasche di giacche e borsette per racimolare i 3,90 euro del prezzo di copertina, nonostante l’impressione di sentire la voce di mamma ricordarmi che erano quasi OTTIMILA lire. Con le mie monetine (quasi OTTIMILA lire!) mi sono avviata in edicola e ho acquistato la mia copia (quasi OTTIMILA lire!) fresca di stampa.

Poi, ho sfogliato Jamie Magazine Italia.

Jamie Magazine Italia, copertina

Doppio editoriale: di Jamie, che ci racconta quanto è felice di pubblicare un giornale in Italia, e di Maverick Greissing, il direttore de’ noantri, altrettanto contento di realizzarlo. Segue pagina dedicata ai contributor e al colophon che, in cerca di nomi noti, sbircio subito. In realtà lo decritto a fatica perché composto in un bastone così sottile, in un corpo così piccolo e soprattutto in un grigio così chiaro che ha messo a dura prova la mia resistenza all’acquisto di un paio di occhiali da presbite.

Però il colophon mi ha strappato un sorriso, anzi, due.

Il primo perché ho visto tra i collaboratori diverse brave colleghe, pregustando la gioia di leggere i loro interventi. Il secondo per quell’indicazione «Per contattarci via mail: nome.cognome@jamiemagazine.it». Ecco, mi sono immaginata lettrici ingenuotte ricevere per tutta risposta un messaggio da Mail Delivery Subsystem: «Delivery to the following recipient failed permanently… sorry, no mailbox here by that name».

Jamie Magazine ItaliaJamie Magazine Italia

E arrivo al sommario: cosa mi aspetterà? Per primi, i contenuti speciali: foto di Tenerife nuova meta foodie europea, di un frikkettone agée con bionda d’ordinanza immortalato durante un banchetto a Montisi (nuova meta foodie italiana?), di tartufi al cioccolato che rimandano all’intervista a Davide Comaschi.

Fra l’elenco dei servizi, mi incuriosisce “L’artigiano in cucina”, sottotitolo: “Volete qualche idea per sfruttare il vostro robot da cucina Kitchen Aid? Correte a leggervi le ricette!”. Mumble mumble, cosa sarà? Un panettiere, o forse un pasticciere (l’artigiano), che ha creato ricette provando sul campo un elettrodomestico liberamente scelto dalla redazione? Fico! Magari, la prossima volta ci sarà una sfoglina che sperimenta l’Imperia, uno chef e il suo Minipimer.

Aspetta che vado subito a pagina 24… Aaaargh! In alto a sinistra, sulla foto di apertura (del robot, ça va sans dire) la scritta “Pubbliredazionale”: ma quando mai si è visto un pubbli comparire in sommario, mimetizzandosi spudoratamente fra i servizi giornalistici?

Vabbè sono vecchio stampo, la deontologia 2.0 non è così rigorosa come quella che mi insegnò qualche decennio fa il mio primo caporedattore. Del resto, nel colophon un caporedattore non c’è, ora che ci penso, e neppure una redazione: mah!

Torno al mio sommario e alla pagina che, finalmente, elenca i servizi dedicati al cibo.

È Pasqua, ci saranno pasta fresca, uova sode, torte pasqualine, pizze e casatielli, colombine… Uhm, no. Una genoise, una ricetta con il crescione, una foto di boh.

“Boh” sono, o almeno sembrano, lollipop, forse di cioccolato fondente e bianco con granella di nocciole o mandorle, ma quando vado a pagina 16 per vedere la ricetta trovo la metà di una doppia di pubblicità: che delusione!

Guardo anche se per caso non sia nel servizio dedicato ai dolci con il cioccolato, che è a pagina 66: 16, 66, l’errore può sempre scappare! Ma no, non è neppure lì. L’ovvia spiegazione è che, in origine, i lollipop fossero a pagina 16, poi è entrata una pubblicità, capisco, ed è il primo numero, chissà la frenesia della chiusura in tipografia, nessuno si è accorto che era rimasta la foto della rubrica sacrificata al vil denaro. Capisco tutto, davvero. Ma sotto sotto comincio a essere un po’ preoccupata.

Giro pagina, sono solo alla 13 e già serpeggia uno strisciante avvilimento.

Proseguo e annoto via via: d eufoniche di troppo, virgole disseminate senza criterio, accenti sbagliati, partitivi usati come articoli indeterminativi, concordanze azzardate, maiuscole dimenticate o aggiunte a casaccio, ripetizioni, ripetizioni, grafie una volta così una volta cosà.

L’antica correttrice di bozze che è in me è presa dallo sconforto davanti a queste che sono minuzie, ma indice di una spiacevole sciatteria che cozza con le immagini ricercate, alcune molto belle (sebbene spesso troppo piccole), e con un progetto grafico abbastanza divertente. Ma le parole sono importanti! E anche i contenuti.

Finte lettere con argomenti e risposte fuori luogo, nel senso che mai un lettore d’Italia scriverebbe a un giornale per sapere come fare un curry di agnello in poco tempo (se ne conoscete uno, ritratto!).

Rubriche e articoli che citano ingredienti così inglesi che più inglesi non si può: il crescione, i ravanelli, la pastinaca, il montone. Tanti, troppi piatti indiani, russi, mediorientali, persino koreani con la k.

Una sola pasta: pappardelle con ragù di capretto nel menu intitolato “La capra dello chef” (sic!) con le ricette della Locanda Locatelli, stellato di Londra.

E le collaboratrici che comparivano nel colophon? Scomparse. I servizi sono firmati da editor, fotografi e home economist (anzi, prop stylist) evidentemente britannici, Jamie compreso. È chiaro che le colleghe italiane si sono limitate a tradurre. Anzi, limitate proprio no, perché le traduzioni appaiono ben fatte e fra un credito e l’altro poteva starci, anche solo in piccolino, una citazione che fosse il riconoscimento al loro buon lavoro.

Jamie Magazine in edicola

Altro? Sì, gli ingredienti nelle ricette sono elencati in ordine di comparizione nel procedimento, quindi per fare il pane nero ci sono prima 2 bustine di lievito, poi un cucchiaino di zucchero, poi melassa, burro, persino un goccio di caffè e solo dopo, molto dopo, le farine. Però, non è sempre così, a volte l’ordine è sovvertito e tutto questo magari non fa tanta confusione ma, ribadisco, fa sciatto.

Molte piccole mancanze, insignificanti se prese singolarmente, rendono il risultato finale abbastanza sconcertante. Un giornale arruffato, spiegazzato, come i capelli e le camicie di Jamie. Tanto fumo e poco roast beef (si vabbè, vedrai che aggiustano il tiro).

[crediti | Link: Scatti di gusto, Sale & Pepe, Dissapore. Immagini: @valefatina @valeriavolponi]