Locali pieni: Firenze, secondo me, non ha abbastanza paura del Coronavirus

Un racconto delle ultime ore a Firenze, tra locali pieni e perplessità. Il Coronavirus non sembra fare abbastanza paura alla non-zona-rossa toscana.

Locali pieni: Firenze, secondo me, non ha abbastanza paura del Coronavirus

Dopo tre giorni lontano da Firenze, che non avevo abbandonato per farmi il weekendino fuori-porta ma per la morte della nonna di mia moglie, sono tornato in città e mi sono trovato dinanzi locali pieni, nonostante il Coronavirus dilagante.

Attesa infatti la domenica per il funerale (celebrato nell’ultimo giorno utile, da lunedì questo tipo di funzioni è stato sospeso in tutta la Toscana), una volta tornato in città mi sarei aspettato di trovare il deserto, dato che nel frattempo era stata diramata la disposizione governativa relativa all’estensione della zona rossa a tutta la Lombardia e a diverse province della confinante Emilia Romagna. Mi dicevo che non ci sarebbe stato nessuno per strada, pochi passanti a guardarsi di sottecchi a distanza di sicurezza, locali vuoti, un senso di sospensione metafisica da Roma d’agosto, pensavo insomma una volta sceso dalla macchina di trovarmi a passeggiare in un quadro di Giorgio De Chirico e invece no.

Appena parcheggiato passo all’interno del piccolo parco intitolato a Henri Dunant, a due passi dal Torrino Santa Rosa, in Oltrarno, e vedo seduti ai tavolini all’interno e all’esterno del Santarosa Bistrot decine di avventori, tra loro vicinissimi, intenti a godersi il tepore di una giornata che pare un antipasto di primavera, tutti coi loro occhiali da sole, i cellulari, i lembi degli ombrelloni che ondeggiano pacati sul viavai degli indaffaratissimi camerieri… Con appena un pizzico di fantasia potrei accostare la serenità della scena alla Colazione dei canottieri di Renoir.

Peccato che in questi giorni, in questo contesto, con gli appelli drammatici sui quotidiani lanciati dagli anestesisti come Christian Sanaroli dell’Ospedale di Bergamo – che dice chiaro e tondo che la situazione è tale da costringerli a decidere chi salvare e chi condannare a morte certa, non avendo a disposizione un numero sufficiente di posti letto in terapia intensiva – scene lievi come quella di questo aperitivo sbucato da un quadro impressionista si tingano di un velo di angoscia infetta.

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#Milanononsiferma, recitava qualche giorno fa il sindaco meneghino Giuseppe Sala, lanciando un video che continuava a vendere l’attivismo e la frenesia del capoluogo lumbàrd come metro di paragone dell’operosità positiva e auspicabile – distillandolo in una frase che ad appena una settimana di distanza si impone come dichiarazione più stupida del 2020 (e pazienza se siamo solo a marzo) – mentre invece non solo Milano si è dovuta fermare, insieme a tante altre città ma bene faremmo a farlo tutti, dato che siamo solo in una fase diversa della progressione del virus e col nostro continuo ammassarci in locali, pub e ristoranti non facciamo che propagarlo ulteriormente.

Dicevo di essere stato a un funerale appena ieri, ho potuto così osservare coi miei occhi increduli l’indicibile sistema escogitato dai vescovi cattolici per permettere al contagio di espandersi nel modo più capillare possibile: al momento della comunione è stata vietata la consegna dell’ostia direttamente in bocca da parte dei sacerdoti ma non per consentire ai fedeli di servirsi da sé del corpo di Cristo, bensì consegnandola direttamente loro nelle mani, di modo che un solo sacerdote contaminato dal Covid-19 possa così certamente trasmettere il morbo a centinaia di credenti. In un periodo in cui le raccomandazioni sull’evitare il contatto tra le mani e in generale la prossimità sono così pressanti ero davvero sconcertato da quanto andavo vedendo, poi però facendo mente locale mi è venuto in mente che qualunque cameriere espone a un rischio simile gli avventori di ciascun locale. Di più: mettendo involontariamente in comunicazione tra loro diversi gruppi di persone moltiplica le possibilità di diffusione del virus semplicemente toccando posate, piatti e bicchieri. E dunque, che ci fate tutti ammassati in questo bel bistrot, fiorentini?

Che ci fate – faccio qualche passo ancora – tra i platani del Circolo della Rondinella, lungo il fiume, a chiacchierare ancora una volta amabilmente ammassati? Non vedete arrivare sui battelli lungo il fiume i carichi di bare pronti a trasformare questo ameno scenario nella Wismar di Nosferatu? Non vedete i topi che banchetteranno su questi tavolini grazie al kick che la vostra leggiadra sottovalutazione dal rischio sta dando al flagello di questa nostra epoca? A me sembra perfino di sentire la battuta del film: “Abbiamo tutti la peste e ogni giorno che ci rimane deve essere una festa”. Ma poi penso che non è vero, non abbiamo tutti la peste (né il Covid-19) e faremmo bene a fare il possibile perché l’infezione non si moltiplichi troppo, sebbene molti tra i miei concittadini pare non se ne rendano ancora del tutto conto.

Il giorno dopo infatti – stamattina – eccoli ammassati in fila al panificio di via Pisana, uno accanto all’altro, tutti vecchi stavolta, incuranti del fatto di essere il target numero 1 per l’implacabile malanno, e ancora ne vedo altri asserragliati attorno al lampredottaro di Piazza de’ Nerli, dove Simone, il titolare, bercia un “mantenete le distanze” lavandosi col solo pronunciare questa frase la coscienza di fronte all’evidenza che le distanze tra gli avventori si misurano in centimetri.

Viviamo in una zona rossa che ancora non sa di esserlo (la Toscana è letteralmente circondata da territori ormai protetti al massimo livello e in Toscana Firenze è la città che conta più casi), per garantire la nostra comune sicurezza e rallentare l’espansione dell’epidemia dovremmo starcene a casa, evitare gli assembramenti, mostrare meno fatalismo e più senso di comunità. Anche se c’è da dire che qualcuno pare aver colto lo spirito del momento. Mentre un illuminato e folto gruppo di ristoratori fiorentini chiedono di poter entrare in zona rossa, per vedersi così garantire le tutele per le attività imprenditoriali comprese nei territori così delimitati, qualcun altro già decide di chiudere, anticipando le disposizioni governative. Come per esempio la Cité, la libreria-café di Borgo San Frediano che lo ha comunicato su Facebook con questo messaggio:

Seguire l’esempio della Cité (o del Rex, così come del Diorama) è un modo per mostrare un senso di responsabilità che può consentirci di uscire prima da questa situazione, una scelta analoga è stata fatta dall’Osteria Francescana di Massimo Bottura (che, diciamocelo, poteva tranquillamente servire il pranzo senza creare assembramenti) e da parecchi ristoratori di Torino – due modelli che ci indicano quanto possano essere importanti le decisioni personali in un frangente di diffusa, sottile e pervasiva ansia collettiva.