Perché il pesce è lo status food di potenti e sciantosi?

Ma lei ha realizzato l’errore che ha fatto ai tempi, ex direttore Gianni Riotta? Quello di eliminare dal Sole 24ore la rubrica sui ristoranti a firma di Camilla Baresani? Una decisione mal digerita anche dalla scrittrice che, in più di un’occasione, ha raccontato del “brutale taglio” avvenuto all’interno del quotidiano economico. La scrittrice trovava che i ristoranti fossero punti di osservazione privilegiati sulla società. Riotta non la pensava così evidentemente.

Il sito Linkiesta, invece, sì. E pubblica un racconto di Camilla sull’Italietta del malaffare a tavola. In verità noi s’era già fatto qualcosa di simile mesi fa con la guida ai ristoranti Bunga Bunga d’Italia (parte prima e seconda). Ma noi siamo, nella migliore delle ipotesi, dei foodwriter, la Baresani scrive libri. Sentite qua:

“Nell’immaginario ittico del piccolo borghese divenuto ricco interpretando i ruoli di corrotto e corruttore non manca mai la cornucopia di pesci ancora palpitanti, pronti a essere divorati dalle fauci vigorose di chi è nel pieno della scalata sociale”.

Il riferimento è all’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi e al suo “gastro-acquario”, il ristorante Rosetta di Roma. Il cibo come status food. A me vengono in mente i contrabbandieri di Santa Lucia a Napoli nell’epoca d’oro delle sigarette che venivano dal mare. I motoscafi attraccati poco lontano e i pentoloni di cozze alle 3 del mattino a piazza Sannazzaro. O Tony Pagoda, il cantante simil-Califano del libro di Paolo Sorrentino “Hanno tutti ragione” che sniffava e mangiava orate e spigole rigorosamente pescate. Il polipo, invece, mai. Guai a trovarlo nel piatto. Perché ? Vale la pena leggere il libro per scoprirlo.

(…) ai tempi della Banda della Magliana, Pippo l’Abruzzese, sul lungomare di Torvajanica, era senz’altro uno dei locali più antropologicamente interessanti del Lazio. (…) Un reliquario di celebrità anni Ottanta. Mancavano però le foto del famigerato Enrico De Pedis e dei suoi compagni di avventure (…). L’aria che si respirava in quegli anni chez Pippo era satura di pistole, cocaina, champagne e aragoste – proprio come nell’iconografia classica, comune alla mala di tutto il mondo.”

Povera Emanuela Orlandi, magari nei pensieri di Renatino intento a spolpare crostacei e a guardare il mare di Torvajanica. Lui che riposa in pace nella basilica di Sant’Apollinare a Roma, lei che potrebbe essere finita in una betoniera proprio sul quel tratto di costa.

“Ho letto in un verbale lo sfogo di un costruttore: ‘Ma lei non sa la fatica e il tempo per restare soli. Il corruttore e il corrotto. Insomma, per poter finalmente mettersi d’accordo sul fatto di pagare’. La solitudine si concretizza in tête à tête che si svolgono in ristoranti rigorosamente di pesce. I prediletti dagli affaristi e dagli amministratori pubblici affamati di tangenti sono i luoghi del “trionfo di crostacei”, dell’alzata di ostriche Belon e Fines de claire, dei branzini e degli astici.”

Questa solitudine dei numeri primi (del malaffare) che concludono affari su tavole piene di gusci vuoti, di carapaci succhiati, di lische affilate, ricorda una natura morta marina dove si spera che prima o poi tutto venga a galla.

“L’alta cucina dei ristoranti stellati o forchettati, quella che minimizza le porzioni e intimidisce con l’allure dello chef, resta invece esclusa dalle pratiche del ritrovarsi socialmente tra arrampicatori e arrampicati, del farsi vedere, del concutere. Non si è mai sentito di tangenti smistate alla Pergola di Heinz Beck o alla Francescana di Massimo Bottura.”

Niente abbondanza nei piatti, nessuna concussione o corruzione da elargire o subire. La panza deve rimanere sgonfia. L’ego, quello può invece nutrirsi allo spasmo. Di certo mi si nota di più se ci vado e se posto una foto, se scrivo un twitt, se faccio un check in. Ipotesi di dialogo tra foodies: “Heinz ieri era in gran forma”, “Davvero? Massimo invece non era al top, sarà stato colpa delle sue nuove New Balance”.

I “Siberia”, secondo la definizione del direttore del New York negli anni ’70 Clay Felker, erano gli spazi “sfigati ” in sala: il tavolo dietro la colonna, quello vicino al bagno o alla cucina. Se ti hanno messo lì non è perché sei arrivato tardi. C’è una ragione sociale, non sei in vista, al ristorante, come nella vita.

“Un po’ quello che succede al Baretto di Milano (…). Qui, per ottenere un bel tavolo con vista sulla ricca borghesia imprenditoriale, su professionisti celebri ancor più per il valore delle parcelle che per quello delle consulenze, su finanzieri allo sbaraglio e direttori di giornali e signore del Soroptimist e milanesi residenti in Svizzera o a Montecarlo, bisogna possedere un tocco di scaltrezza mondana”.

Poi Milano è un po’ come la descriveva Eugenio Montale, che molto l’amava: una città che ti permette di vedere senza essere visto.

“Senza dimenticare i tatuaggi collocati nelle parti vedo-non vedo di certe camerierone domesticamente sciantose, come visto in una indimenticabile trattoria dalle parti di Goro; e gli avanzi di boutique messi a servire in tavola al Gold di Dolce e Gabbana; e i piedi gonfi dei vecchi camerieri dei Due Ladroni di Roma, quelli che immagino di notte, dopo la chiusura, mentre avviano la loro vecchia utilitaria e guidano fino a Tor qualcosa, verso mogli disgustate dal loro odore di fritto e di sigarette”.

Bello no? C’è ’idea del dietro: al bancone, alla cassa, nei locali spogliatoio. E’ tutto quel mondo che non sale sul palco degli show-cooking, che non divide con lo chef gli applausi del pubblico. Fare la cameriera a 20 anni in un ristorante stellato o forchettato è lo stesso che vendere reggiseni da Intimissimi. La vocazione? Certo, spiegatela ai vecchi camerieri dei Due Ladroni a Roma che a forza di servire ai tavoli hanno imparato tutte le lingue del mondo, ma che la moglie a cena fuori non ce l’hanno mai portata.

“(…) La verità è che i ristoranti sono il bengodi dei narratori, perché la loro materia è eterna e continuamente rinnovata, al di là di quello che succede dentro e fuori dai loro frigoriferi”.

Sig.ra Baresani io non voglio fare la foodwriter. Voglio fare la Camilla Baresani.

[Crediti | Link: L’Inkiesta, immagine: GiustoGusto]