Leggendo “Lo chef è un Dio”, il Kitchen Confidential de Noantri

Dopo il primo assaggio nel fine-settimana scorso, avevamo promesso nuovi brani del libro che sta mettendo a soqquadro le cucine italiane. “Lo chef è un Dio“, scritto da Ilaria Bellantoni, la giornalista che ha passato un mese nella cucina milanese di uno chef famoso, ribatezzato Vito Frolla, ha diviso i nostri commentatori in due scuole di pensiero genericamente riassumibili in 1) “Spassoso! Il re è nudo” e 2) “Pura spazzatura”. Ma rischia di trasformarsi in un piccolo caso editoriale.

Sul motivo per cui gli chef sono così popolari. C’è una teoria che spiega l’interesse fenomenale che i media hanno rivolto agli chef negli ultimi tempi: gli chef sono popolari come i personaggi dello spettacolo perché la gente non fa più sesso e mangia nei ristoranti stellati per sublimare il desiderio con il cibo. Potrebbe essere.

Probabilmente su Luca Gardini, campione del mondo dei sommelier e direttore del ristorante Carlo Cracco. “Tu non hai proprio idea di quello che ho visto accadere nei ristoranti dove ho lavorato.” “Pendo dalle tue labbra.” “Una volta, in uno stellato di Novi Ligure, una donna in tailleur si è seduta al tavolo con il suo compagno.” “E… ” “Era così distinta. E l’ho beccata ad armeggiare sotto la tovaglia tra le braghe dell’uomo che cenava con lei.” “Capirai. Non sarà stata né la prima, né l’ultima.” “Sì, però questa ha continuato mentre le versavo nel bicchiere del Sauvignon Blanc. E lui ha raggiunto l’orgasmo nel momento esatto in cui ho sistemato la bottiglia nel secchiello del ghiaccio.” “Da cosa l’hai capito?” “È venuto sopra la tovaglia.” “Okay, hai vinto.” “Un’altra volta, a Roma, una ragazza e un manager di mezza età si sono alzati nello stesso momento e hanno raggiunto il bagno delle donne correndo.” “Uno dei due stava male?” “No, dovevano assolutamente trombare. In sala si sentivano le loro urla.” “E i clienti?” “Hanno fatto finta di niente. Con i russi, invece, si tratta di veri e propri show. Mangiano, ruttano, si drogano, trombano, vomitano. E non sempre in quest’ordine.” “Scusa, perché non li cacciate?” “Perché i russi ti ricoprono di denaro. Una volta, un 
gruppo di Mosca ha speso 20.000 euro per una cena in un hotel di Forte dei Marmi.” “Ma come hanno fatto?” “Bevono come spugne, si sa. E scelgono le etichette più costose. Quella volta lì, uno mi ha dato le chiavi della sua Ferrari: la sua bionda aveva dimenticato la pochette di Dior sul sedile della macchina. Sono uscito a recuperargliela.” “E poi?” “Hanno estratto dalla borsa della polvere bianca e si sono messi a sniffarla sul tavolo.” “Davanti a tutti?” “C’erano solo loro. Quella sera ho ricevuto 1.000 euro di 
mancia. Comunque, se uno spende ventimila euro per una cena, gli lecco anche il buco del culo.” “Che schifo.”

“E questo non è niente. In un elegante ristorante di Torino che dirigevo qualche anno fa è successo di peggio. Se tu fossi stata lì ti sarebbe venuto un coccolone.” “Mi tremano già le gambe.” “Un signore e una signora sui sessanta prenotano un tavolo per festeggiare il loro anniversario di matrimonio.” “E poi finisce che fanno sesso sul tavolo?” “Magari. Cominciano a bere. Pesante. Ma nessuno ci fa 
caso, sono qui perché sono trent’anni che stanno insieme e brindano al loro amore.” “Finché non arriva l’amante di lui, che fa una scenata e spiaccica la torta dell’anniversario sulla faccia di lei.” “No, smettila. Succede che a un certo punto lei sta male. ‘Mi gira la testa,’ avverte. Si alza dalla sedia e cade.” “Morta stecchita?” “No. Questa casca e io la soccorro perché il marito è ubriaco quanto lei. La prendo in braccio e cerco di portarla in bagno.” “Dove, già che ci sei, te la trombi.” “Succede che, dopo che ho superato la prima rampa di scale con la sciura in braccio, sento dei rumori sinistri provenire dal suo stomaco.” “Quindi lei ti vomita sulla giacca.” “Sì, e poi scoreggia. A quel punto la lascio stramazzare sul pavimento di marmo. Dove si caga anche addosso.” “Non ci posso credere.” “Credici. Se l’è fatta addosso nell’ingresso del ristorante.” “Letteralmente, una figura di merda. Io mi sarei ammaz-
zata.” “Invece quelli hanno chiamato un taxi e se ne sono tornati a casa.” Bon appétit!

La protagonista del libro intervista Fausto Arrighi, direttore della Guida Michelin.

Fausto Arrighi sui critici gastronomici. Il critico gastronomico dovrebbe essere al di sopra del palato comune. Con la penna divinizza o fa cadere nello sconforto i ristoratori che, di solito, si difendono dandogli semplicemente dell’incompetente. Non so chi abbia davvero ragione, ma a me è sembrato che in Italia ci sia troppa “vicinanza” tra critici e chef. “Vede, da noi la critica fa paura. I cuochi si abbattono terribilmente quando qualcuno scrive male di loro e quindi, per reazione, coccolano i giornalisti. I giornalisti, dal canto loro, sono grandi approfittatori: pretendono di mangiare sempre gratis. Lo so perché tutte le volte che ne ho invitato uno a pranzo non ha mai tirato fuori il portafoglio. Non fanno neanche il gesto, sa? Io mi comporto così.

Su Edoardo Raspelli, conduttore di Mela Verde e critico de La Stampa. Tra i critici in carne, il più narciso è Edoardo Raspelli, pregevole firma della “Stampa”, che non si è accontentato di raccontare di sé in rete. Del resto, pesando 126 chili per un metro e 76 centimetri, avrà pensato di essere da solo un uomo-notizia. Dopo averle provate tutte per dimagrire, alla fine si è fatto inserire un palloncino nello stomaco e ha invitato le telecamere a entrare al Policlinico di Milano per trasmettere l’operazione in diretta su Canale 5: che coraggio. È seguito un dibattito con Platinette, of course. Conclusione: anche i critici hanno fame di fama. Ma va’? Raspelli è stato l’unico tra i critici che ho intervistato a fare della Zia della Piccola Fiammiferaia (l’autrice del libro) una donna felice: mi ha ricordato che gran parte di quel che ha inventato Vito Frolla (presumibilmente Carlo Cracco) è solo “una boiata pazzesca”. Ed è stato proprio un bel momento, quando me lo ha rivelato al telefono: ci siamo messi a sghignazzare all’unisono. Grazie.

Su Enzo Vizzari, direttore della Guida I ristoranti dell’Espresso. “Guardi che Raspelli scrive da quarant’anni lo stesso articolo. È chiuso pregiudizialmente al nuovo, posizione che non condivido. Così come detesto i critici che organizzano festival o fanno gli impresari: o fai il critico, o fai altro,” precisa Enzo Vizzari. Ex manager e goloso da sempre, ora dirige la Guida ai Ristoranti dell’“Espresso”. Quando provo un ristorante a me non interessa sapere se lo chef è in cucina, perché i cuochi non sono né geni, né artisti, né attori, bensì artigiani più o meno valenti. Quindi, se uno chef è bravo è in grado di creare il modello che la sua squadra riproduce alla perfezione anche quando lui non c’è. Tutto qui.” “Cucino benissimo,” puntualizza per mettermi subito a mio agio. “Non ci crede? Guardi che ho la lista d’attesa con Davide Scabin del Combal.Zero e Andrea Berton del Trussardi alla Scala che si autoinvitano a casa mia. Apparecchio io, massimo per dieci persone. Ho pregiatissimi servizi di piatti e almeno seicento bicchieri; uso solo batterie di pentole di rame, le migliori. Scrivo anche il menu con i vini, ma i cuochi ridono, dicono che la mia è la migliore carta dei vini perché ho un’intera cantina a disposizione degli ospiti. L’altra sera, dopo la terza portata Scabin mi ha chiesto chi c’era davvero in cucina. Io, che domande. I miei piatti sono famosi, chieda in giro della mia panissa di riso con il salam d’la duja e i fagioli.” Pentola d’Oro mi stringe la mano, mi saluta e promette di aggiungere il mio nome alla sua celebre waiting list. Deve avermi piazzato proprio in fondo perché non mi ha ancora chiamato.

Sul mondo della cucina. Quello della cucina è un mondo per uomini duri. Si lavora dalle 8 alle 15 e dalle 17 all’1 del mattino per uno stipendio medio di 1400 euro al mese, se va bene. Non esistono straordinari né giorni di malattia, i cuochi non si ammalano mai. Sanno che, se cedessero, metterebbero in difficoltà la loro brigade e, visto che ciò che regola la vita tra i fornelli è il senso dell’onore, la disciplina e la venerazione del capo, tutti scoppiano di salute.

Su Paolo Marchi, organizzatore del congresso per cuochi Identità Golose. Paolo Marchi del “Giornale”, invece, mi ha telefonato un paio di volte ed è merito suo se sono finita a “spassarmela” nelle segrete di via Gavroche. È stato lui a presentarmi Testa di Sugo (presumibilmente Carlo Cracco), quindi sono ancora incerta se essergli grata o non rivolgergli più la parola. Identità golose è opera sua. Come altri colleghi ha un passato da giornalista sportivo, ma dal 12 marzo 2007 ha scelto definitivamente la cucina. Sai, sono un ingordo e me ne frego della linea, basta guardarmi. Invece, bisognerebbe tenerci, trattenersi e mangiare leggero. Non a caso, l’Alta Cucina va in questa direzione, anche se è più facile essere tradizionali che creativi.

Su Marco Bolasco, direttore editoriale di Slow Food. “La cucina è arte, una delle più avanzate e complesse.” Così la pensa Marco Bolasco, il golden boy della critica tricolore: a 32 anni curava già la Guida del Gambero Rosso e a 36 poteva permettersi di rinunciarvi perché in tempi di carestie “non avevo più i mezzi per lavorare come avrei voluto”. Dal momento che il ragazzo era molto stimato nell’ambiente, è stato salvato dal precariato dalla Slow Food, che gli ha affidato all’istante la direzione della casa editrice. Altrimenti, avrebbe dovuto accontentarsi di una manciata di recensioni sparse su riviste di settore e blog per gastrofighetti, come accade ai suoi coetanei freelance. Che tra i liberi professionisti della penna sono i meno remunerati. State a sentire questa. Anticipano le spese di tasca propria, cioè pagano con i loro soldini pasti stellati da centinaia di euro. Visti i compensi da recessionisti, spesso capita che lavorino quasi gratis. Per amore della cucina o per la gloria. Andando ad affollare la categoria ignominiosa dei bamboccioni. Alcuni si trovano un lavoro vero che foraggi il loro hobby, altri, pur di appartenere all’oligarchia enogastronomica, finiscono a fare “marchette”: compilano comunicati stampa di sponsor golosi, diventano ghost writer di chef di grido e insomma si arrendono ai peccati della gola vendendosi al miglior offerente. Ma Marco Bolasco no, lui è il più talentuoso, il più giovane, il più bramato: “Sono laureato in Scienze della comunicazione e ho avuto la fortuna di frequentare corsi di cucina e per sommelier. Sa, i colleghi della generazione precedente per scuola hanno avuto solo la loro passione,” strombetta il fanciullone falso magro. Rimpinzandosi per mestiere ha messo su otto chili: “Ma neanche si notano: sono alto un metro e novantatré, io. I francesi, comunque, ci superano in maestosità. Noi italiani siamo solo morbidi, rispetto a loro. Anche i nostri chef sono affilati, l’avrà constatato da Frolla (presumibilmente Carlo Cracco). Me lo lasci dire senza indugio: la scuderia di Vito (ancora Carlo Cracco, forse) è tecnicamente molto preparata e rigorosa e lavora in armonia assoluta.” “Armonia? Mi conceda il lusso di nutrire qualche perplessità,” chioso. E lui: “Ci vuole un po’ per cogliere ciò che sta dentro un piatto. Lei, del resto, ha passato solo un mese in cucina”. “Già. Lei, però, non ci ha mai passato neanche un giorno. Arrivederci, arrivederci.”