Green pass nei ristoranti: il vergognoso balletto sul controllo dei documenti, riassunto

Insomma, voi lo avete capito se nei ristoranti possono (devono?) controllarci i documenti, una volta esibito il green pass? Tutte le contraddizioni ufficiali, fino ad oggi.

Green pass nei ristoranti: il vergognoso balletto sul controllo dei documenti, riassunto

Non si capisce niente. Può sembrare una frase buttata lì ma è la sintesi più corretta della questione Green Pass, obbligatorio per sedere in ristoranti e locali al chiuso, e relative verifiche dell’identità di chi esibisce la certificazione verde. Un balletto di spiegazioni e posizioni, da parte delle autorità statali, che sarebbe ridicolo, se non fosse vergognoso. L’ultima puntata della saga la firma ministero dell’Interno, con una circolare secondo la quale i ristoratori non sono obbligati a chiedere i documenti a chi esibisce il Green Pass, ma possono farlo; e anzi devono farlo nel caso di palesi abusi.

Sì perché ovviamente sono già all’opera i furbetti, e i trucchetti: alla fine il passaporto vaccinale è un’immagine che si può tranquillamente inviare da smartphone a smartphone, per cui se si vuole essere sicuri bisognerebbe chiedere anche il documento di riconoscimento. E qui si aprono i problemi.

7 agosto, i ristoratori sono “tenuti a verificare la documentazione”

I ristoratori, a mezzo Fipe, lo hanno iniziato a dire ancora prima che l’ultimo decreto legge anti Covid – quello che istituiva l’obbligo di Green Pass per una serie di attività tra cui la consumazione al chiuso nei risposanti e nei bar – entrasse in vigore: noi non siamo sceriffi. È pacifico che il Green Pass all’ingresso deve essere controllato, tramite apposita app, dai gestori dei locali: ma l’ulteriore verifica, il controllo che il cliente non stia usando la certificazione di un’altra persona? In un primo momento il Governo sembrava attestato su una posizione intransigente: i titolari dei pubblici esercizi, tenuti a controllare il Green Pass, devono anche verificare l’identità, quindi chiedere i documenti. Lo diceva, non proprio in modo cristallino, una nota congiunta dei ministeri competenti il 7 agosto, giorno succedevo all’entrata in vigore del Green Pass, che affermava: “I titolari o i gestori di servizi e attività per cui è previsto l’accesso con obbligo di Certificazione verde COVID-19 sono tenuti a verificare la documentazione”. Tenuti a verificarne la documentazione, ovvero non solo a chiedere la certificazione, ma anche controllare la corrispondenza del nome alla persona.

9 agosto, i ristoratori “non possono chiedere la carta d’identità dei clienti”

Due giorni dopo, cioè ieri lunedì 9 agosto, la parziale retromarcia annunciata dalla Ministra Luciana Lamorgese. Anzi, il completo dietrofront: la titolare degli Interni dice che “I titolari dei locali non potranno chiedere la carta d’identità ai clienti, faremo una circolare di chiarimento su questo. Noi chiediamo venga richiesto al chiuso il green pass”. Lamorgese aggiunge anche che i controlli non saranno fatti neanche dalle forze dell’ordine, che hanno ben altro a cui pensare: e siamo d’accordo, ma non si capisce bene allora chi diavolo li debba fare. A meno che non si voglia risolvere tutto molto all’italiana: un obbligo, con tanto di sanzioni, ma senza controlli.

10 agosto: verificare i documenti è una cosa che si fa già. Insomma ci sta

Il giorno dopo, e siamo a martedì 10 agosto, è il sottosegretario alla Salute Andrea Costa a contraddire la Ministra Lamorgese dichiarando che “verificare la corrispondenza dei dati del green pass con il documento d’identità, tutto sommato, poteva essere un elemento di garanzia e di ulteriore controllo e verifica. Sono procedure che nel nostro Paese già si fanno per alcune attività”. In effetti, i tabaccai e gli stessi gestori di bar dovrebbero verificare la maggiore età di chi acquista sigarette e alcolici, e quindi chiedere i documenti.

10 agosto: gli esercenti non sono mica pubblici ufficiali

Il 10 agosto stesso (ieri) poi, è arrivata la risposta del Garante della Privacy a una richiesta della Regione Piemonte: la richiesta era stata fatta qualche giorno fa dall’Assessore agli affari legali, Maurizio Marrone, “per avere conferma che agli esercenti privati non possano, e non debbano, essere attribuite funzioni tipiche dei pubblici ufficiali”. Insomma si voleva avere un via libera ufficiale, e invece la risposta è stata di segno opposto, e ancora una volta in contraddizione con un’altra posizione ufficiale.

Dice il Garante: “Le figure autorizzate alla verifica dell’identità personale sono quelle indicate nell’articolo 13 del Dpcm 17 giugno 2021 con le modalità in esso indicate, salvo ulteriori modifiche che dovessero sopravvenire”, cioè “i titolari delle strutture ricettive e dei pubblici esercizi”. A queste figure “è consentito il trattamento dei dati personali consistente nella verifica (…) dell’identità dell’intestatario della certificazione verde, mediante richiesta di esibizione di un documento”. La “disciplina procedurale”, dice il Garante, “comprende – oltre la regolamentazione degli specifici canali digitali funzionali alla lettura della certificazione verde – anche gli obblighi di verifica dell’identità del titolare della stessa, con le modalità e alle condizioni di cui all’art. 13, c.4″. Quell’articolo recita che “l’intestatario della certificazione verde all’atto della verifica dimostra, a richiesta dei verificatori, la propria identità personale mediante l’esibizione di un documento di identità”.

10 agosto: i ristoratori possono, non devono

E ancora oggi, infine, arriva quella che dovrebbe essere la parola definitiva: la tanto attesa circolare ministeriale. Cosa dice il documento firmato dal dal capo di gabinetto Bruno Frattasi? La verifica “ha natura discrezionale ed è rivolta a garantire il legittimo possesso della certificazione. Tale verifica si renderà comunque necessaria nei casi di abuso o elusione delle norme”, “quando appaia manifesta l’incongruenza con i dati anagrafici contenuti nella certificazione”. Quindi il ristoratore può chiedere il documento, ma non deve; questa facoltà però diventa obbligo se l’elusione appare palese. Tenendo conto che chiedere documenti in pubblico può essere un problema in vari casi, la circolare precisa che “la verifica di cui trattasi dovrà essere svolta con modalità che tutelino anche la riservatezza della persona nei confronti di terzi”.

Poi un cavillo giuridico: “È il caso di precisare che l’avventore è tenuto all’esibizione del documento di identità, ancorché il verificatore richiedente non rientri nella categoria dei pubblici ufficiali”. E infine la questione delle sanzioni: “qualora si accerti la non corrispondenza fra il possessore della certificazione verde e l’intestatario della medesima, la sanzione risulterà applicabile nei confronti del solo avventore, laddove non siano riscontrabili palesi responsabilità anche a carico dell’esercente”. Insomma se la violazione non era palese, il gestore del locale non può beccarsi la multa. Tutto chiaro, tutto logico?

Più o meno: non vogliamo cavillare anche noi, però qui si tratta di parole pesanti, che dovrebbero essere chiare al di là di ogni ragionevole dubbio. È così? Mentre la Ministra dell’Interno diceva che i ristoratori “non possono” – cioè non solo che non sono obbligati, ma che non devono chiedere i documenti neanche se vogliono, e che quindi il cliente può legittimamente rifiutarsi – il Garante Privacy dice che “è consentito” chiedere la carta d’identità, cioè che i ristoratori possono, non devono: una differenza non da poco. E sulla stessa linea pare essere la circolare ministeriale: natura discrezionale delle verifica, che però diventa necessaria in casi estremi. La soluzione finale, o l’ennesimo colpo al cerchio e alla botte, che però apre a ulteriori dubbi interpretativi? A ulteriori richieste di chiarimenti, e spiegazioni e FAQ e note e dichiarazioni, in un loop infinito. Perché insomma ragazzi, a questo punto davvero, va bene tutto: basta che vi mettiate d’accordo.