Ristorante Dal Pescatore: “Alla riapertura si racconteranno meno favole”. Intervista a Giovanni Santini

La nostra intervista a Giovanni Santini del Ristorante Dal Pescatore, il tre stelle Michelin più longevo d'Italia, che immagina le riaperture post-Coronavirus e ci parla della sua cucina, di come ripartirà.

Ristorante Dal Pescatore: “Alla riapertura si racconteranno meno favole”. Intervista a Giovanni Santini

Meno favole figlie dello storytelling, più “fatti” e fiducia tra clienti e chef. Come cambieranno i ristoranti secondo Giovanni Santini (Dal Pescatore), che si prepara a riaprire, quando l’emergenza sanitaria lo concederà, ripartendo dalla sua campagna. Abbiamo intervistato lo chef. 

Dal Pescatore a Canneto sull’Oglio è molto più di un ristorante. È uno di quei posti che sono il simbolo di una grande tradizione, quella della ristorazione italiana familiare di altissimo livello. Aperto nel 1926 dalla famiglia Santini (che lo guida ancora oggi), Dal Pescatore è il ristorante italiano che detiene da più tempo le tre stelle Michelin, appuntate sul petto di Nadia e Giovanni Santini ininterrottamente dal 1996. Dal Pescatore è un luogo dove i piatti si caricano del significato della storia, mentre la campagna tutta intorno finisce di costruire l’esperienza.

Ed è proprio lei, la campagna, la chiave che aiuterà questo inossidabile pilastro della nostra cultura culinaria a superare questo momento difficile, con l’emergenza Coronavirus che ha messo in ginocchio la ristorazione. Almeno, è così che la pensa Giovanni Santini, figlio di Antonio e Nadia, membro della quarta generazione della famiglia di ristoratori, da molti anni in cucina accanto a sua mamma.

Ognuno, in questo momento, ha la sua formula: c’è chi punta tutto sullo stimolo di creatività rappresentato dal delivery, come Giuliano Baldessari e chi, a nome delle imprese di settore, chiede a gran voce la possibilità di fare asporto (vedi alla voce FIPE).

E c’è chi, come Giovanni Santini, si prende questo tempo per pensare e riscoprire il legame con la terra, con la materia prima, con l’essenza del lavoro della ristorazione. Lo abbiamo sentito per capire come stanno vivendo, lui e la sua famiglia, questi giorni di incertezza e difficoltà. Giorni in cui uno chef resta lontano dalla sua cucina, e raccontandolo si commuove, è chiaro dal tono della voce e dal sospiro che prende prima di parlare: “Mi manca. Mi manca chiudere ogni tortello con amore, come se lo facessi per mio figlio. Mi manca la quotidianità dell’artigianalità, dei gesti del nostro lavoro”.

– Qual è attualmente la vostra situazione?

“Noi siamo chiusi già dall’8 marzo, prima ancora che ci fosse il lockdown totale. Sabato 7, dopo l’ultimo servizio, ci siamo confrontati: avremmo potuto tenere aperto a pranzo, ma in Lombardia c’era già una situazione molto difficile, e abbiamo deciso di chiudere, più che altro per un atto di responsabilità”.

– Certo, non è facile, quando gli stipendi di un’intera famiglia dipendono da un’unica attività, come nel vostro caso…

“La verità è che, se guardo alla storia della mia famiglia, la mia generazione è quella dei privilegiati. La nostra azienda ha quasi cent’anni, si è evoluta nel tempo, pur non cambiando mai l’approccio, ha attraversato cose come la Seconda Guerra Mondiale. Ci siamo sempre confrontati con una vita che prevedeva vacche grasse e vacche magre, per cui noi il fieno in cascina l’abbiamo sempre messo. Così, forti di quest’esperienza, in questo momento abbiamo la possibilità di parare il colpo, di riflettere in maniera ordinata e abbastanza serena. Poi magari dovremmo fare un passo indietro, dalla fuoriserie alla bicicletta, ma questo non è un problema. Non mi vergogno a riprendere in mano il badile: bisogna saperlo fare quando è il momento, e anzi è un valore, l’importante è non svendere la propria dignità”.

risotto fonduta caprini dal pescatore

– Come immaginate il futuro della vostra cucina?

“Certo non avremo più la possibilità di fare un menu esteso come prima, ma questo non significa rinunciare alla qualità. È opportuno valutare attentamente quello che è il parametro prezzo: non conosco nessuna materia prima di qualità che possa valere la metà di quello che valeva prima, né un produttore o un allevatore di materia prima di qualità che possa valere la metà di quello che lo pagavo un tempo. Perciò, dobbiamo dare risalto al valore di ciò che acquistiamo e alle persone che abbiamo di fronte, al loro sacrificio per produrre, trasformare e offrire a noi le materie prime. Noi usciamo e vediamo la terra, la terra ci dà la grande lezione che se non semini non hai. Dobbiamo cominciare a seminare aspettando frutti diversi, sviluppando nuove strade, molto più faticose probabilmente, ma più vere e più pure, basate anche sul contesto geografico in cui siamo”.

– Un trionfo del chilometro zero, insomma.

“Quello del chilometro zero è un concetto di grande effetto, ma talvolta solo ipotetico: qui in campagna è più fattibile che in città, e non è detto che io trovi di fronte a me solo persone disposte a sposare questa filosofia. Però certamente si riscoprirà un lavoro più a corto raggio. E questo va anche nella direzione di tagliare i costi: mi concentro maggiormente su materie prime che riesco a controllare personalmente, magari con allevatori qui intorno”.

– Tutti concetti validi anche prima, o sbaglio?

“Sì, ma non si mettevano in atto, quindi quanto erano veri? Facevamo grandi proclami, raccontavamo favole nelle interviste, ma nella pratica, in verità, cosa si è fatto? Questa situazione in qualche modo ci aiuterà a passare dalle parole ai fatti: i compromessi a ribasso non hanno motivo di esistere in queso momento. Poi ognuno a casa propria fa quello che vuole, ma noi credevamo in queste cose anche prima, e siamo qui da cent’anni. Ora è il momento di schiacciare l’acceleratore, di procedere a velocità spedita verso la strada che già si aveva in mente, anche in maniera più radicale e profonda, senza mai rinunciare alla qualità. Bisogna lavorare su altri aspetti della riorganizzazione, su cose molto razionali, tagliando ciò che non è necessario”.

sella capriolo dal pescatore

– Quindi, più sostanza e meno effetti speciali?

“Non è facile dare una ricetta che valga per tutte le aziende. Il risultato finale, quel 10 in pagella, ognuno lo prende con la sua strada. Noi, secondo la nostra visione della vita, abbiamo seguito e seguiremo questi principi: per noi conta il valore umano degli uomini, cosa fanno come lo fanno. Il rapporto diretto tra chi arriva e chi prepara. La volontà di affidarsi delle persone verso le quali si ha stima e rispetto, che avrà un valore ancora più grande: in una situazione di paura e di angoscia il cliente si affiderà a noi, e questa fiducia andrà ripagato con un grande sforzo, che per noi significa qualità e un ambiente confortevole e piacevole”.

– Quando pensate di ripartire?

“Non lo sappiamo, ma il punto di domanda in questo momento è più il come che il quando. Di certo non riapriremo il giorno successivo al “via libera”, perché dovremo innanzitutto ricreare un rapporto con i clienti che avevano prenotato in tutte queste settimane, far sapere che ci siamo di nuovo, ma ancor prima essere certi di saper gestire tutti i punti critici. La gestione dei tavoli non è un problema, erano già molto distanziati prima, ma vogliamo avere anche il controllo dei parametri sanitari, delle relazioni tra noi e con i clienti. Dobbiamo sapere come muoverci. Di certo quando riapriremo la nostra natura non sarà barattata con la riorganizzazione. Non abbassiamo il tiro, anzi lo alziamo”.

terrina di astice, dal pescatore

– E nel frattempo, avete pensato a soluzioni tipo il delivery?

“Mah, io non ho una vera opinione sul delivery. So che la nostra struttura non è mai stata pensata per cose di questo genere, non abbiamo neanche mai fatto catering. E poi noi non abbiamo un bacino di utenza per progetti di questo tipo, siamo in una frazione di trenta abitanti in piena campagna”.

– Quindi l’essere in campagna è in parte uno svantaggio?

“Io la scelta di stare in campagna non la cambierei con nessun’altra al mondo, niente è penalizzante a priori. Tre anni fa, in un articolo, leggevo che entro il 2050 il 70% delle persone avrebbe vissuto nelle aree metropolitane: se avessi guardato a quelle previsioni avrei già dovuto riflettere allora sulla mia scelta. E invece noi crediamo nella campagna, e nella ristorazione in campagna: se tutti vanno a vivere in città, ci sono esperienze che hai piacere di fare fuori. Questo è il momento della riflessione: ognuno di noi si reinventerà secondo le sue specificità: chi è in città potrà sfruttare il delivery, che se fatto bene è sicuramente una risposta non solo economica. Chi è in campagna invece punterà, per esempio, sul concetto di spazio (non solo fra un tavolo e l’altro, ma anche lo spazio intorno a sé), sul fatto di far vivere ai clienti un’esperienza immersa in una poesia diversa dalla città. Noi dobbiamo vincere questa partita, insieme alla città, perché noi siamo l’Italia, e stiamo tutti giocando la stessa partita”.