Possiamo salvare il mondo facendo la spesa e con quello che mangiamo? Ma certo che sì, ci andiamo ripetendo da decenni. E ci proviamo: le nostre abitudini alimentari sono cambiate, leggiamo le etichette, consumiamo meno carne, compriamo sostenibile e mangiamo bio. Eppure com’è che va tutto a catafascio, dal riscaldamento globale alle condizioni di lavoro, come prima anzi peggio che mai? Magari non facciamo abbastanza, come consumatori. Oppure, all’opposto, forse il compito è superiore alle nostre forze: forse non è la risposta a essere sbagliata, ma la domanda che è mal posta, come diceva quelo lì. Forse il punto chiave è proprio in quella parola, “consumatori”, che sposta tutto il peso sull’azione individuale, con il doppio effetto di accollarci un obiettivo irraggiungibile, e al contempo di distrarci dai veri responsabili – dalle vere soluzioni.
Perché la risposta dev’essere collettiva, politica: è quello che sostiene Fabio Ciconte in un breve e potente libro intitolato appunto Il cibo è politica. Ciconte è giornalista e scrittore, autore di importanti inchieste sul mercato alimentare, nonché fondatore e presidente dell’associazione Terra! La famigerata frase di Margaret Thatcher “non esiste la società, esistono solo gli individui” la citiamo sempre ma dimentichiamo che non fu pronunciata da una studiosa di sociologia, bensì da una Prima ministra in carica: non è quindi semplicemente una tesi, una teoria interpretativa della realtà, ma un programma politico. Non ciò che è, ma ciò che deve essere; non descrizione ma prescrizione. Un programma che ha funzionato molto bene, se siamo arrivati a questo punto. Quale punto? Il punto in cui qualsiasi iniziativa è attribuita al singolo cittadino, anzi consumatore, che alla fine resta cornuto e mazziato: sconfitto per non aver cambiato le cose e pure col senso di colpa per non esserci riuscito.
“Stigmatizzare il consumatore non è la soluzione. Anzi è parte del problema”, scrive Ciconte. Perché non ce la possiamo fare, come individui singoli e senza un’azione collettiva, politica? Ecco alcuni argomenti tratti dal libro.
Domanda giusta, risposte sbagliate
La domanda “cosa posso fare come consumatore” è anche giusta, o meglio legittima, perché muove dal desiderio di non restare passivi, di “fare qualcosa”. E quindi i consigli standard, di cui lo stesso Ciconte racconta di essersi spesso fatto megafono.
«spreca meno, mangia meno carne, leggi l’etichetta», dicevo. E continuavo suggerendo di comprare bio o di rifornirsi al commercio equo e solidale. È la risposta tipica che ci si è dati in questi anni. In effetti, sono gli stessi consigli che moltissime associazioni danno ai loro soci attraverso manuali e decaloghi di ogni genere: «come fare la spesa consapevole», «come essere un bravo consumatore in dieci semplici mosse», «il cambiamento parte da te: sette consigli per vivere verde».
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mi sono convinto che una delle ragioni per cui non siamo riusciti a rendere sostenibili i sistemi alimentari è che ci siamo concentrati esclusivamente sull’ultimo anello delle responsabilità, ovvero sul mangiare, l’atto individuale del nutrimento, come se fosse sufficiente essere dei bravi consumatori senza occuparsi delle responsabilità a monte della filiera. Semplifico il concetto: abbiamo sentito troppo spesso dire «diventa vegetariano, spreca meno» e mai abbastanza «la colpa è delle cento multinazionali responsabili del 70% delle emissioni» o «la responsabilità è della politica che finanzia gli allevamenti intensivi».
La differenza tra idea e azione
Perché poi tra idea e azione c’è una grande distanza, in certi casi colmabile solo per alcuni, che hanno disponibilità economica, in altri per nessuno.
Sappiamo che lo spreco alimentare, i rutti delle mucche stipate negli allevamenti intensivi, i liquami del bestiame, la deforestazione per fare spazio ai pascoli, il consumo di suolo sono ingredienti che contribuiscono alla crisi climatica. Sappiamo pure che, quando troviamo una di quelle superofferte promozionali al supermercato, ne pagano il prezzo gli agricoltori che non vengono remunerati adeguatamente o i braccianti che lavorano in condizioni di sfruttamento. Ne siamo consapevoli e ci indigniamo ogni volta che uno di loro muore travolto dalle condizioni di caporalato, ma poi è difficile fare qualcosa, perché con i nostri salari fermi al palo da trent’anni è facile ricadere nella tentazione di quella superofferta. Il sistema alimentare funziona cosí: si nutre della nostra frustrazione, della nostra impossibilità di fare diversamente.
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sostenendo che, in fondo, un piccolo sforzo non costa nulla, è servito solo ad acuire le distanze tra chi ha la possibilità di spendere qualcosa in più e chi – la maggior parte – non può. Questo divario segna una voragine sociale, una spaccatura della società che, purtroppo, spesso è alimentata da un ambientalismo un po’ snob e borghese che, dall’alto del suo porta- foglio pieno, dispensa consigli sull’importanza di «spendere qualcosina in più per comprare biologico».
L’invenzione della carbon footprint
Frequenti sono i paralleli con altri ambiti, come quello della moda o dell’energia, perché facciamo parte tutti dello stesso mondo. E particolarmente illuminante è il momento in cui Ciconte ricorda una cosa clamorosa, e clamorosamente dimenticata:
“Siamo arrivati al paradosso per cui abbiamo smesso di puntare il dito sull’operato delle industrie petrolifere, tanto che ora sono queste a invitarci al consumo consapevole. Anzi, il concetto di impronta carbonica l’hanno inventato loro per diluire il carico di responsabilità con ognuno di noi, facendoci quindi dimenticare le loro colpe. La pioniera di questa strategia è senza dubbi la British Petroleum (BP), «la seconda più grande compagnia petrolifera al mondo, con diciottomila stazioni in tutto il globo». A partire dal 2004 ha lanciato un’imponente campagna di comunicazione per promuovere un calcolatore in grado di dire quanto inquina ognuno di noi con le sue azioni quotidiane. È la BP ad aver coniato l’espressione carbon footprint (impronta carbonica). Grazie a questo calcolatore oggi sappiamo quanti chili di CO2 impieghiamo per fare un bonifico, usare la macchina, prendere un aereo o fare la spesa. È grazie a esso che il relatore della conferenza sul clima ha potuto dirci quanta anidride carbonica genera ognuno di noi. Ed è il sistema che è stato utilizzato in questi anni per fare un continuo appello alla responsabilità individuale, distogliendo l’attenzione da quella delle compagnie petrolifere. Per esempio, ci ha fatto dimenticare che «British Petroleum si è resa protagonista di uno dei piú grandi disastri ambientali di sempre, l’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon del 2010, 11 vittime e mezzo miliardo di litri di greggio riversati nel Golfo del Messico”
L’inganno dello spreco
“Lo spreco di cibo. Ne sprechiamo tantissimo, è vero. Ma siamo sicuri che sia tutta colpa nostra? Siamo certi che sia solo responsabilità del consumatore? Non appena pronunciamo la parola «spreco», la nostra mente visualizza immediatamente il sacco dell’immondizia di casa, il contenitore dell’umido che, anche questa volta, contiene la carota raggrinzita rimasta in un anfratto del frigorifero per settimane, l’insalata del giorno prima che nessuno ha più voglia di mangiare e quel vasetto di yogurt comprato in offerta al supermercato che è scaduto chissà da quanto tempo. Diciamo la verità: siamo talmente abituati a questa immagine che oramai ci sembra normale riversare tutte le responsabilità sul consumatore – cioè su noi stessi –, reo di non prestare attenzione agli acquisti, di non programmare la spesa o, peggio, di non curarsi della sostenibilità. Solo che, anche questa volta, nel racconto mancano altri due co-protagonisti: il primo, quello subdolo, che ci spinge a consumare sempre di piú; il secondo, quello che non si vede, che si verifica ancor prima che il consumatore se ne possa accorgere“.
Già, perché la maggior parte dello spreco di cibo non avviene nel punto finale della catena (31%) ma altrove, a livello di produzione (23%) e soprattutto di trasformazione e distribuzione (tutto il resto).
Lo strapotere dei supermercati
“C’è un valore che, piú di tutti, indica il peso dei supermercati nelle nostre vite: 80%. L’80% degli acquisti agroalimentari, in Italia, avviene in un supermercato. Non è solo una percentuale imponente, ma è un numero che sta crescendo di anno in anno. Appena pochi anni fa, sempre secondo i numeri forniti da adm, gli acquisti all’interno di un supermercato erano il 70%. Significa, quindi, che in una manciata di anni siamo entrati sempre più spesso in un supermercato spendendo sempre di più e, via via, abbiamo abbandonato luoghi come le botteghe e i mercati che, nel frattempo, fanno sempre più fatica a stare in piedi”.
Ma c’è una reale alternativa al supermercato? Possiamo cioè farne veramente a meno? Questo è un classico esempio di come si addossano responsabilità e sensi di colpa ai singoli, schiacciati da ingranaggi più grandi di loro. No, dice Ciconte, non è pensabile fare a meno della spesa al supermercato, anche se le politiche di sconto sono basate su meccanismi atroci per i lavoratori, come le aste a doppio ribasso. Non è realisticamente pensabile perché i prezzi sono troppo convenienti, perché ci si trova di tutto dal fresco al surgelato e quindi è comodo per chi ha poco tempo (cioè tutti), perché offre una scelta vasta non solo in orizzontale ma anche in verticale, per ogni prodotto fornendo alternative per tutti, dal pensionato che non arriva a fine mese al gourmet “altospendente”.
La guerra e l’addio al Green Deal
Qualche anno fa l’Unione europea si era mossa finalmente contro il cambiamento climatico, con un programma di transizione verde (criticato e criticabile per troppa modestia, ma comunque era qualcosa) detto Green new deal, all’interno del quale la parte agricola e alimentare costituiva una parte importante (Farm to fork). Poi però c’è stata la guerra mossa dalla Russia.
“All’indomani dell’invasione dell’Ucraina, l’Europa ha sperimentato nuovamente la paura della fame. E non importa che si trattasse di una paura irrazionale o indotta, non ha importanza sapere che l’olio di girasole non sarebbe sparito dagli scaffali dei supermercati, o spiegare che l’Ucraina non è il tanto decantato «granaio d’Europa» e che l’Europa produce grano in abbondanza e ne esporta a sua volta. Quello che conta è che la paura è stata l’ingrediente perfetto per mettere in discussione ogni ipotesi di transizione ecologica del modello produttivo europeo. Da quel momento si è iniziato a dire che l’Europa sarebbe dovuta diventare autonoma dal punto di vista alimentare, evitando pericolose dipendenze da Paesi come la Russia e l’Ucraina che non potevano più garantire l’esportazione di materie prime. E che, di conseguenza, era necessario produrre il più possibile e, per farlo, bisognava eliminare ogni ostacolo. E qual è l’ostacolo principale, secondo le lobby dell’agroindustria? Naturalmente la transizione ecologica del modello produttivo europeo, ovvero la strategia Farm to Fork“.
Il problema della carne
La questione della carne è un altro ottimo esempio di come ragionare solo a livello di individui sia inutile e anzi dannoso. Gli allevamenti intensivi consumano acqua e risorse, inquinano terra e aria, sono un disastro conclamato.
La risposta che in questo momento ognuno di noi si starà dando è: «Dobbiamo mangiare meno carne!» Ed è una risposta corretta: dobbiamo mangiare meno carne, è vero. Ma è una risposta corretta solo per metà. Anzi, è parte del problema. Quante volte abbiamo sentito dire frasi come: «Se ognuno di noi mangiasse meno carne, ridurremmo enormemente il problema». Ma, se ci avete mai fatto caso, nessuno dice: «Se smettessero di produrre carne, ridurremmo enormemente il problema». Non c’è (quasi) mai nessuno che dica: «Bisogna produrre meno carne». Sembra una questione semantica, ma non lo è affatto, perché mangiare meno carne riguarda solo l’azione individuale, mentre produrre meno carne chiama in causa le scelte di mercato e quelle degli attori politici.
Invece quello che abbiamo visto negli ultimi anni è solo l’inasprimento del dibattito tra chi mangia carne e i vegetariani, che stanno sì aumentando ma restano pur sempre minoranza, e soprattutto mai come prima sono percepiti come un pericolo per le “tradizioni”. In un turbinio di video, meme, accuse reciproche e insulti anche pesanti, la classica guerra tra poveri che lascia prosperare i ricchi.