Inflazione: perché il prezzo del cibo cresce più degli altri?

L'inflazione è un numero solo, ma è un moltiplicatore di disuguaglianze. Per esempio fa aumentare il prezzo del cibo in maniera maggiore. Ecco perché.

Inflazione: perché il prezzo del cibo cresce più degli altri?

Il caro prezzi colpisce tutti i beni allo stesso modo? No, per niente. E i beni più colpiti dall’inflazione sono proprio quelli più necessari, quelli di cui non si può fare a meno e il cui aumento fa più male: i beni alimentari, soprattutto. Un crudele paradosso: ma perché funziona così, perché il prezzo del cibo cresce più degli altri? Ci sono una serie di motivi, specifici di questa ondata di inflazione, ma anche generali. Prima però vediamo se è vero.

L’inflazione dei beni alimentari

I dati parlano chiaro. Da marzo, dopo che a fine febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina, i prezzi al consumo che già si erano alzati dopo due anni di pandemia e relativa ripresa, sono aumentati di oltre il 6% e nel giro di pochi mesi l’inflazione è arrivata attorno all’8%. Questo sia considerando l’indice per Famiglie di operai e impiegati (FOI) che quello Nazionale per l’intera collettività (NIC). 

Ma a trainare questi aumenti sono stati soprattutto due fattori: i costi delle materie prime per produrre energia (in particolare gas e petrolio) che hanno fatto schizzare in alto le bollette; e il cibo. Nell’area Euro, a giugno l’indice dei beni alimentari (compreso il bere, esclusi gli alcolici) è salito del 10,4% secondo i dati della Banca Centrale Europea. Nel Regno Unito del 9,8%, stando all’Istituto Nazionale di Statistica. Negli USA  pure del 10,4%. Una differenza sensibile rispetto ai relativi indici generali: e per certi beni lo stacco è ancora maggiore. Negli Stati Uniti il tasso è del 12,2% se si considera solo il settore grocery, cioè la spesa, escludendo ristoranti e locali. In Italia hanno fatto notizia i casi del latte (+19%) e del burro (+32% addirittura).  

Un’altra impressionante conferma arriva dall’indice dei prezzi del cibo misurato dalla Fao: a giugno è stato di 154.2 punti; ed è vero che il picco si è avuto in marzo con 159.7, ma fino al mese prima era a 141.1, e quelli attuali sono i livelli più alti da quando è iniziata la misurazione nel 1990.

Caro prezzi, le cause degli attuali aumenti del cibo

soldi

La situazione che stiamo vivendo è senz’altro straordinaria: una guerra, e prima una pandemia, e a monte la crisi climatica. Il che poi ci porta a dire: straordinaria ma non passeggera. Partendo dalle cause più vicine del caro prezzi, gli aumenti hanno riguardato il cibo come effetto diretto del conflitto: Russia e Ucraina sono grandi produttori ed esportatori di grano, orzo, mais, colza e girasole. La guerra ha bloccato le esportazioni e ha diminuito la stessa produzione. Meno beni in circolo nel mercato globale, uguale prezzi più alti.

Ma non c’è solo la guerra, il conflitto non ha fatto che acuire una crisi già in atto, come evidenzia un’analisi della società di consulenza Deloitte. La pandemia ha causato una contrazione nei consumi e nella crescita mondiale, ma dopo il -3,1% del 2020 il PIL globale è cresciuto del 5,9%: bene, no? Però la ripresa ha fatto salire anche i prezzi, in particolare delle cosiddette commodity tra cui le coltivazioni più diffuse.

Ma gli strascichi della pandemia hanno anche provocato una crisi dei trasporti e della supply chain: in un primo momento a causa dei vari blocchi e lockdown; in un secondo tempo per effetto dell’aumento dei prezzi dei carburanti (ecco come l’inflazione si auto-alimenta, l’un settore influendo sull’altro). Questi due aspetti hanno colpito alcuni beni più di altri, per ovvi motivi, cibo in primis.

Per non parlare della carenza di fertilizzanti, gran parte dei quali veniva dalla Russia, che ora costano di più e quindi a cascata vanno a riflettersi sulle produzioni agricole. Ma la situazione contingente spiega solo a metà i fatti: dietro ci sono più generali leggi dell’economia.

Domanda, offerta, paradosso

frutta verdura scaffali supermecato

Una legge basilare dell’economia è quella della domanda e dell’offerta, che incontrandosi determinano la quantità di bene prodotto e venduto in un determinato mercato, e il relativo prezzo. Seguendo questa legge, il meccanismo dovrebbe essere molto semplice e auto-regolato: all’aumento di prezzo dovrebbe diminuire la quantità che i consumatori sono disposti a comprare, al che i produttori dovrebbero rispondere con una diminuzione di prezzo che riporta il sistema in equilibrio.

Ma le cose sono più complicate di così, perché quello dell’inflazione è un meccanismo a spirale, che si autoalimenta in un rimbalzo di cause ed effetti. Quando si tratta di cibo, le famiglie diminuiscono i consumi sì, ma meno di quanto dovrebbero per ristabilire l’equilibrio, e comunque si spostano verso alternative low cost (alimenti senza marchio, ovvero le private label dei supermercati, spesso discount). In casi estremi addirittura a un aumento del prezzo di un bene può corrispondere un aumento negli acquisti: è rimasto emblematico il caso della terribile carestia in Irlanda (1845-1849), quando un fungo falcidiò i raccolti di patate causando la morte di un milione di persone; il prezzo delle patate aumentò ma, essendo un bene essenziale e comunque più economico di altri, le fasce più povere tagliarono tutti gli altri consumi e comprarono più patate. Oggi per fortuna non siamo a quei livelli tragici, ma comunque effetti controintuitivi e paradossali ci sono.

Per esempio, alcune catene di supermercati come l’americana Walmart prevedono nel prossimo quadrimestre di aumentare le vendite e contemporaneamente di diminuire gli incassi. Com’è possibile? Perché in tempo di crisi i consumi si spostano: il che ci porta a spiegarci perché l’inflazione colpisce certi beni più che altri, in generale. 

Il cibo, insieme a non molti altri beni, appartiene alla categoria dei beni primari, ovvero delle spese necessarie. La quantità di cose da mangiare che compriamo dipende sì dal loro prezzo, ma solo fino a un certo punto: c’è una soglia di sopravvivenza sotto la quale non siamo disposti a scendere. Poniamo, ad esempio, che io spenda 1000 euro al mese, 700 per cibo e bollette, 300 per beni voluttuari, divertimento eccetera. Se una botta di inflazione del 10% fa sì che gli stessi beni ora costino 1.100 euro, io cosa farò, opererò tagli orizzontali? Più probabilmente, comprerò la stessa quantità di beni essenziali (al netto delle bollette che non posso abbassare più di tanto, anche cucinando la pasta col gas spento) spendendo 800 euro, e taglierò in maniera drastica i divertimenti. 

Questo è anche il motivo per cui l’inflazione, anche quando colpisce tutti i beni in modo uniforme, non è una livella, ma un moltiplicatore di disuguaglianze. Sia tra famiglia e famiglia, sia tra nazione e nazione. Ma l’argomento merita un capitolo a parte.