Tradizione vs. innovazione: siamo ancora e sempre un paese di pastasciuttari, per giunta local

Tradizione vs. innovazione: siamo ancora e sempre un paese di pastasciuttari, per giunta local

Per decenni, il paradigma dell’alta cucina è stato indiscusso e universale: ovunque si trovassero, gli chef dovevano guardare alla Francia. La Bibbia era costituita dalla trilogia di Escoffier: Le Guide Culinaire del 1903, Le Livre des Menus del 1912 e soprattutto Ma Cuisine del 1934.

Questa stasi dura fino agli anni Settanta, quando un gruppo di giovani cuochi francesi, capitanati da Paul Bocuse e Pierre Troisgros, riscrivono le regole del gioco: nasce la nouvelle cuisine, con l’esplicito consenso degli influenti critici Henri Gault e Christophe Milau; in Italia, portatore di queste istanze di rinnovamento fu su tutti Gualtiero Marchesi.

Tutto cambia, niente cambia: la cucina di riferimento viene ammodernata con successo per la prima volta in decenni, ma la geopolitica del gusto continua a prevedere una sola lingua, il francese.

In un’Europa impegnata nelle prove generali di una futuribile unione, inizia a serpeggiare qualche malessere: in Italia, simbolo di questa insofferenza diventa il geniale (e decisamente ammiccante) spot diretto da Federico Fellini nel 1985 per Barilla.

Qualcosa, però, si muove sottotraccia: nel 1984 l’americano Harold McGee, scienziato culinario e celebre volto tv, pubblica “On Food And Cooking: The Science And Lore Of The Kitchen” gettando le basi della gastronomia molecolare, anche se il conio del termine risale a otto anni dopo.

Lo chef diventa anche scienziato, consapevole che la cucina è fatta di reazioni chimiche, e acquisisce tecniche che gli permetteranno di superare con un balzo la staccionata entro cui per decenni è stata confinata l’alta cucina: insegna a un uomo a pescare e mangerà per sempre, dice il saggio.

Novelli Prometeo padroni di strumenti e tecniche nuove si abbandonano alla sperimentazione a briglia sciolta, e chef come Ferran Adrià, Heston Blumenthal e Thomas Keller, supportati dalla critica, oltrepassano per sempre l’egemonia francese.

Fast forward fino a fine millennio, l’era dell’esplosione di Internet, del villaggio globale e allo stesso tempo dell’esplosione delle istanze no global, del chilometro zero, dei localismi. Lo chef, oramai pienamente padrone della tecnica, è libero di ricercare strade nuove.

La gastronomia molecolare passa il suo apice, insegnando lezioni non dimenticate: manifestazioni come Cook It Raw e MAD Foodcamp ne sono il lascito, assieme a tecniche come la cottura a bassa temperatura che porta con sè anche vantaggi nutrizionali. Le nuove cucine sono molteplici, la dittatura transalpina solo un ricordo.

Renè Redzepi del Noma di Copenhagen è incoronato miglior chef del mondo, con una cucina che nasce dalla necessità (a far scattare la molla fu un inverno particolarmente rigido in cui molti degli ingredienti abituali non erano reperibili) e dalla riscoperta di materie prime locali dimenticate. Simile è il percorso di Alex Atala in Brasile, senza dimenticare il peruviano Gaston Acurrio.

E’ l’era del new localism, summa di tradizione e innovazione, il focus è sulle materie prime locali ma è solo un punto di partenza da non leggere in modo restrittivo. Per gli chef di casa nostra, però, c’è un problema: il provincialismo degli italiani.

E’ recente la notizia della chiusura del ristorante Andreini ad Alghero e suo trasferimento a Mosca. Lo chef stellato si sfoga con una clientela, a suo dire, non interessata ai piatti innovativi, ma solo alla cucina tradizionale. Eppure il suo stile si incastra perfettamente nel filone del new localism, con proposte come culurgiones di patate, calamari al nero, vongole e ricci, cime di rapa all’aglio (il mio piatto dell’anno 2012) o l’agnello: spalla, controfiletto, animelle e interiora, carciofi e olive, mantecato alla menta.

E insomma, quanto sono conservatori i clienti dei ristoranti italiani?

NORD.
Al nord gli chef creativi sembrano avere un buon seguito: il plauso attorno alle creazioni di Carlo Cracco, Davide Scabin ed Enrico Crippa appare unanime, in un contesto che la presenza di Gualtiero Marchesi, assieme alla sua longa manu (due dei tre nomi appena citati sono passati per le sue cucine), ha reso aperto a sperimentazioni e contaminazioni.

Inoltre il substrato appare favorevole all’affermazione di giovani chef, da Lorenzo Cogo a Christian Milone passando per Fabio Barbaglini. Non si può in ogni caso ignorare una rinnovata considerazione per i prodotti del territorio, sempre vissuta in modo tutt’altro che punitivo. Ma in città come Genova, per esempio, chi va al ristorante si aspetta di trovare sempre un certo numero di piatti tradizionali, dal pesto ai pansotti col sugo di noci.

CENTRO.
Nel centro Italia i compromessi sono più vistosi. Ne sa qualcosa il più estremo tra gli allievi di Marchesi, quel Paolo Lopriore che, genio incompreso, ha dovuto fare un passo indietro e ripartire a Siena da una cucina più tradizionale.

A Bologna, Firenze, Roma, le trattorie tipiche vanno sempre forte, e non sempre i ristoranti creativi hanno successo. Penso a locali espressioni di talento purissimo come il Tordo Matto di Zagarolo, il cui chef Adriano Baldassarre dovette gettare la spugna verso altri lidi poco dopo avere ricevuto una stella Michelin, o alla quantità di tavoli vuoti che vedo in ristoranti romani che offrono piatti stimolanti, intelligenti, ludici.

Luciano Monosilo, nel dirigere la cucina del ristorante romano Pipero al Rex, è ideatore di proposte altamente creative, ma il suo nome è legato a doppia mandata alla carbonara, una grande carbonara, non c’è dubbio, ma sarebbe limitativo fermarsi lì come troppo spesso si fa.

Tuttavia è proprio a queste latitudini che il new localism italiano trova il suo campione in Massimo Bottura dell’Osteria Francescana di Modena. Nei piatti del più acclamato fra gli chef di casa nostra il legame con il territorio è sempre presente, spesso evidentissimo come nel bollito non bollito, nella compressione di pasta e fagioli o nelle cinque stagionature di Parmigiano. Idee e tecniche per nobilitare ingredienti quotidiani facendo loro compiere il salto quantico da artigianato ad arte.

Allievi? Mi viene da citare Riccardo di Giacinto di All’Oro, a Roma, che rielabora la coda alla vaccinara, il maritozzo assieme alla cacio e pepe o burro e alici, giocando con forme e ingredienti senza perdere il filo della romanità.

SUD.
Al sud, il legame tra cucina e terra appare ancora più intimo, per trasformarsi all’occorrenza in prodotto da esportazione.

Se Alfonso Iaccarino e Gennaro Esposito sono profeti in patria, esponenti di una cucina raffinata e intelligente ma immediatamente ascrivibile a una zona geografica precisa, Antonino Cannavacciuolo e Ilario Vinciguerra hanno trapiantato con successo al nord il modello della nuova cucina napoletana, che indica la via al connubio tra comfort food e alta cucina.

Il crescente successo di questi due chef dimostra che nelle terre di Marchesi e dei suoi allievi c’è spazio per il cuore e la pancia, non solo per il cervello. Ma indubbiamente, proporre una cucina creativa a sud di Roma non è facile, specialmente se non si ha l’appoggio di una struttura alberghiera in grado di procurare una clientela più varia e cosmopolita. In particolare a Napoli, altra città innamorata dei classici, a cominciare dalla pizza.

Del resto siamo il Paese delle grandi tradizioni culinarie, del sacro tomo di Anna Gosetti della Salda, del pranzo della domenica. Opportunità o limite strutturale?

I profeti del new localism giurano sulla prima.

[Crediti | YouYube, Financial Times, Dissapore, immagine: Saveur]