C’era una volta una bambina sottopeso e un po’ anemica che sua madre rifocillava a suon di pappa reale e cuore di maiale. Per non parlare del fegato travestito da cotoletta. Difficile scrollarsi di dosso i traumi gastronomici infantili, ma ho odiato molto più la finta cotoletta di fegato e la palettina energetica sotto la lingua rispetto al cuore scottato, che oggi mangio molto meno spesso di allora, ma che in fin dei conti non mi dispiaceva.
Questo accadeva 30 anni fa. Poi, in un tranquillo pomeriggio dei tempi nostri scopro che organizzano una cena a base di quinto quarto a Milano, al temporary restaurant Al Cortile, dove si mangia (tra le altre cose) anche tartare di cuore di maiale e carpaccio di cuore di vitello.
“Mia madre sarebbe orgogliosa di me” penso, e contemporaneamente sento quel brividino malsano che mi scende lungo la schiena. Esiste qualcosa di più “mostruoso” che mangiare cuore crudo? Perchè alcuni chef contemporanei hanno sviluppato questo senso dello splatter, tanto da intitolare una cena della domenica sera “Sunday, bloody sunday?”
Certo che se Salma Hayek è riuscita a prendere a morsi il cuore di un drago nell’ultimo film di Garrone, posso farcela anch’io. Almeno credo. Ma il suo era cotto. Ma quello era un film. Ma i draghi non esistono.
Troppo tardi: mi è scattato quello strano meccanismo per il quale, davanti alla sfida, cascassero tutti i draghi del mondo, devo combattere la mia paura e uscirne vittoriosa. Io ci vado alla Bloody Sunday, ci vado e mi mangio cuore crudo.
Gli chef sono Matteo Fronduti del ristorante milanese Manna (uno che fa il “riassunto di pollo fritto” e ci mette dentro anche il fegato) e poi Eugenio Roncoroni con Beniamino Nespor di Al Mercato, dove fanno quell’hamburger delle meraviglie.
Mi sento confortata, ci provo per davvero. E poi qui si parla di “etica carnivora”: visto che si macella un animale è giusto non scartare nulla, ma nulla proprio.
E mi ritrovo, d’improvviso, seduta ad un tavolo con in mano il menu più sanguinolento che mi sia mai capitato di assaggiare.
Non è facile, un po’ lo temo questo benedetto cuore, perché me lo ricordo bene da cotto quando si accartocciava nella padella di mia madre, ma non so bene cosa aspettarmi dal crudo.
Si inizia con il benvenuto: coppa di testa con cicoria scottata e rafano. Mi hanno preso per una principiante?
Molto buona, non temo certo le orecchie del maiale, io.
Le due varianti sulla pancia di maiale sono deliziose, ma davvero, e poi iniziare una cena bevendo della grappa con pera candita mi promette bene, oltre a farmi pensare che “sono capace di sovvertire le regole autoimposte dal mio cervello, ora gliela faccio vedere io al cuore crudo, tzè”.
Ci siamo. Si inizia dalla versione Manna, più tradizionale. Questa è tartare di cuore di maiale al coltello, cipolla acida e senape. Mi guardo intorno, chiedo ai miei vicini se hanno mai mangiato cuore (“ma certo!”) crudo (silenzio, sguardi attoniti, “no, crudo no in effetti”).
Brividino, di nuovo. Poi penso al fegato cotoletta di mia madre e mi faccio coraggio.
Il cuore crudo non ha un sapore marcato: prima sorpresa. Non sa di sangue, non sa nemmeno di ferro (avete presente quando ci si succhia la ferita da bambini e si sente quel ferruginoso in bocca? No, non c’è neanche quello), assomiglia al cuore scottato ma ha una consistenza ancora più elastica e un gusto meno forte.
“A cosa assomiglia sotto i denti?” chiedo agli altri in religioso silenzio e con occhi nel piatto. “Ha la stessa consistenza di una seppia cruda”: verissimo, ecco quello che cercavo e a cui da sola non arrivavo.
La versione numero due sul bordo del piatto, quella di Al Mercato, è decisamente meno classica tagliata a carpaccio (appena scottata, ma forse per una frazione di secondo) polvere di funghi enoki e olio al sesamo. Questo è cuore di vitello, ma non ne percepisco differenze.
Il gusto già abbastanza soft del cuore tende a scomparire mescolato agli altri sapori (quello sapido del fungo vince su tutto). Insomma, il cuore è piacevole, delicato e, cosa importantissima, non sa di sangue. E pensare che mi aveva fatto così paura.
No, ora è tutta discesa per me.
Risotto allo zafferano e rognone trifolato: ecco, il rognone batte il cuore 4 a 1 sul fronte intensità.
Anche nella seconda versione di spaghettini sichuanesi, cipollotto, arachidi e rognone, quest’ultimo tiene testa a sapori etnici più strong e pervasivi (le arachidi conquisteranno il mondo).
Tradizionale Manna con la trippa asciutta e i fagioli borlotti. Piccantissimo Al Mercato con l’insalata di trippa fredda, carta di riso, peperoncino fermentato. Due versioni diversissime, ma apprezzabili (in entrambi i casi per la consistenza). Va beh dai, ma la trippa la mangiano tutti.
Manca solo il dessert: mi sento vincitrice assoluta.
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E poi, quando sei tutta tronfia e soddisfatta (“ora telefono a mia mamma e glielo dico che ho mangiato il cuore crudo”), inaspettatamente il baratro.
Il dessert si chiama Hostel ed è un cremoso al sangue di maiale, crumble di cioccolato fondente, cremoso al cioccolato bianco, meringa allo yogurt.
Panico.
Gli altri assaggiano, io ho qualche dubbio, poi mi faccio coraggio, chiudo gli occhi, infilo in bocca il cucchiaio.
Il panico era giustificato: questo è troppo anche per me. Fermi tutti, non ce la faccio. Il sanguinaccio tempo fa mi era anche piaciuto, ma stavolta siamo oltre, isso bandiera bianca. Facciamo che mia mamma la chiamo un’altra volta.
[Fotocrediti | Lucilla Manino photoart, Carlotta Girola]