Ministro Lollobrigida, osteggiare il vino dealcolato conviene all’Italia?

Fare del vino dealcolato una questione di principio conviene al mercato italiano? Il ministro Francesco Lollobrigida pare ignorare che, osteggiando il no alcol, le "nostre" cantine rischiano di rimanere indietro rispetto agli altri Paesi.

Ministro Lollobrigida, osteggiare il vino dealcolato conviene all’Italia?

Ministro Lollobrigida, glie lo si chiede per cortesia ora: la smetta di parlare di vino dealcolato. O meglio, smetta di parlarne come fosse un demonio, una cosa sbagliata, una mostruosità. Lei è il Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, ha pieno diritto di parlarne; arriverei anche a dire che ha il dovere di farlo. Continuare a buttarla sulla semantica (vedi anche l’argomento ‘carne coltivata’) è però alquanto controproducente, perlomeno in termini di contemporaneità, soprattutto perché si ignora totalmente un mercato da decine di milioni di euro fermo al palo per convinzioni ideologiche.

Il low alcol (e il no alcol) è un trend, positivo

Giusto per fare un brevissimo sunto di cose che già conosce: il vino contiene alcol etilico. L’alcol si sviluppa naturalmente grazie all’azione dei lieviti in ambiente anaerobico. Ora accade che ci sia una crescente sensibilità verso gli effetti dell’alcol sulle persone, a breve e a lungo termine: a breve termine può rendere le persone felicemente ebbre, loquaci, fantasiose, ma un consumo eccessivo può trasformarle in vaneggianti, iraconde, violente, insomma in personaggi non da prendere come paradigma di umana decenza (serve poi dire cosa accade quando un ubriaco si mette alla guida, che tanto “io conosco il mio corpo”? Immagino di no); a lungo termine esso è un potenziale cancerogeno, fatto questo acclarato e non discutibile. Moriremo di cancro bevendo vino? No. Il consumo di vino (e altri alcolici) aumenta il rischio di contrarne uno? Sì.

Bevande analcoliche artigianali da provare: i nostri migliori assaggi analcolici di NO/LO BOLO Bevande analcoliche artigianali da provare: i nostri migliori assaggi analcolici di NO/LO BOLO

Non è moralismo bacchettone, solo un’analisi dei dati: il consumo di alcol non fa bene, come il consumo di carni lavorate o il fumo. Chi scrive adora il vino, non disdegna ancora il pasteggiare a carne e non ha la minima intenzione di morire sano, ma ha anche contezza di eventuali rischi associati. Conoscere non mette in discussione millenni di ‘tradizioni gastronomiche’, ci rende solo più consapevoli nelle nostre libertà.

Da tutto questo trae origine la crescente richiesta di vini dealcolati. Siamo d’accordo che sarebbe da veri folli ignorare un mercato tanto futuribile per continuare a difendere il vino tradizionale. Che poi, difendere esattamente da cosa? Nessuna tradizione è in pericolo, non è in atto alcun progetto di sostituzione e(t)nologica.

Tra i giovani dai 18 ai 24 anni vanno fortissimo le bevande low e no alcol Tra i giovani dai 18 ai 24 anni vanno fortissimo le bevande low e no alcol

Voglio dire, fino a qualche anno fa proporre una ciotola di riso bianco con sopra frutta e pesce crudo avrebbe fatto ridere i polli, ma oggi a Roma ci sono più pokerie che fermate della Metropolitana. Ecco, io non ho mai assistito ad una difesa dello spaghetto ‘aglio e oglio’ contro l’invasore hawaiano. In realtà, una pubblica protesta gastronomica la ricordo: Roma, 20 marzo 1986, apertura del primo punto McDonald’s a Piazza di Spagna. Si fecero sentire, megafono in mano, artisti del calibro di Renzo Arbore, Claudio Villa, Giorgio Bracardi, Bombolo e Valentino (lui per interessi personali: aveva ed ha la bottega lì a due passi). Oggi quel punto McDonald’s è ancora vivo e vegeto, è spalleggiato da altre centinaia di confratelli e Prandini, Coldiretti, afferma addirittura che “McDonald’s rappresenta l’italianità“ (o tempora, o mores).

Il vino dealcolato è proprio vino

Alla luce di tutto ciò, che senso può avere osteggiare l’uso del termine ‘vino’ per il vino dealcolato (che, ricordiamo, il Regolamento UE 2021/2117 del 2 dicembre del 2021, consente)? Lei dice “arriveremo a una soluzione che, io ritengo, possa essere trovata in una lingua bella come l’italiano, che ha la capacità di definire ogni cosa con una parola” (per me già esiste: vino dealcolato). Ma in che modo la difesa del vino tradizionale, giammai avvistato in situazione di pericolo, passerebbe attraverso il cambio di nome del suo fratello dealcolato? “Forse che quello che chiamiamo vino cesserebbe d’avere il suo profumo“?

Il fatto di non chiamarlo ‘vino dealcolato’ collocherebbe la bevanda in un settore differente, in competizione con altre bevande con nulla hanno in comune. Invece chi vuole bere vino dealcolato vuole proprio bere del vino, non una qualsiasi bevanda; l’unica cortese richiesta è l’esclusione l’alcol, cosa che la fisica e la chimica consentono di fare senza alterare di molto il gusto. E badiamo bene che un vino dealcolato sarà sì in competizione con i confratelli ‘tradizionali’, ma l’assenza della componente alcolica lo penalizzerà inevitabilmente in termini di profondità gustativa e di ampiezza ed intensità aromatica. Noi un vino dealcolato, l’unico che siamo riusciti a reperire sul mercato, lo abbiamo provato, e questo aspetto è emerso chiaramente.

La scelta di un vino dealcolato è per ora principalmente salutistica (o religiosa, o precauzionale), certamente non gustativa. Ma è comunque un’alternativa per chi, volendo evitare il consumo di alcol, è costretto a ripiegare tristemente su un’acqua tonica o un’Oran Soda. Possiamo sperare nell’ascesa della kombucha e della birra analcolica, Ministro, ma temo il comparto del vino italiano, a lei caro, non ne trarrebbe alcun giovamento.

E il mercato italiano, in questo senso, non asseconda affatto i consumatori: reperire una bottiglia di vino dealcolato in Italia ha le stesse probabilità di scoprire un fossile di dinosauro, mentre negli USA il vino dealcolato nel 2023 ha fatturato circa 1 miliardo di euro. Strano che i produttori italiani non siano poi tanto negativi sul poter esplorare questo segmento senza variarne il nome, non trova?

La tradizione del vino di oggi: la rivoluzione di ieri

Chiudo con un ultimo sguardo al passato, alla “tradizione“. Barolo, anni ’80: un gruppo di giovanotti demolisce le vecchie enormi botti di famiglia (qualcuno letteralmente, con una motosega. Citofonare a casa Altare per sentire ancora le bestemmie del fu Giovanni Altare all’indirizzo del figlio Elio che rimbalzano tra le mura) e le rimpiazza con le barriques di rovere francese. Scandalo, orrore, attentato alla tradizione. Non solo: questi pazzoidi andavano in vigna e diradavano l’uva come se non fosse la loro, lasciando giusto un paio di grappoli di nebbiolo per pianta e facendo piangere di rabbia i contadini che conoscevano bene la fame, la ‘malora’ delle Langhe. Quei Barolo ricchi ed immediati attraversarono l’Atlantico, spopolarono in U.S.A., tornarono a casa e trainarono l’intero areale ad una ricchezza non solo mai vista, ma nemmeno lontanamente sognata. Oggi un fazzoletto di terra, ma di quella buona, nelle Langhe costa più di una Ferrari, e la maggior parte della gente non riconoscerà mai la differenza tra un Barolo tradizionale e uno barricato, perché è un Barolo quello che ha nel calice, è un vanto della tradizione italiana. E, come si vede, la tradizione ha successo quando (solo se?) si rinnova.