Stati Uniti: approvato il secondo prodotto a base di carne da laboratorio

Negli Stati Uniti una seconda azienda ha ottenuto il via libera dal governo per la vendita di prodotti con carne da laboratorio.

Stati Uniti: approvato il secondo prodotto a base di carne da laboratorio

È passato un inverno intero dall’ultima volta che vi raccontammo della decisione della Food and Drug Administration degli Stati Uniti (FDA per gli amici) di autorizzare al consumo umano la cosiddetta carne da laboratorio (anche se il nome corretto, al di là di colloquialismi più o meno innocui, è di fatto “carne coltivata”). La notizia aprì di fatto i cancelli dell’indubbiamente florido mercato statunitense alla UPSIDE Foods, impresa specializzata nella produzione di pollo in coltura cellulare, che poté così vantarsi di essere la prima a portare i propri particolari prodotti nel contesto a stelle e strisce. Da oggi, tuttavia, UPSIDE Foods avrà degna compagnia: si tratta di GOOD Meat, azienda californiana che ha appena ottenuto il pollice in su dalla FDA per portare sul mercato americano il pollo coltivato.

Carne da laboratorio in quel d’Oltreoceano

Francesco Lollobrigida

Non ci sarebbe bisogno di specificarlo, ma per amore dell’informazione (e per assicurarci che il messaggio giunga forte e chiaro anche a chi si è seduto in fondo) ci teniamo a ribadire che il parere della FDA implica che il prodotto in questione (sì, proprio la temutissima carne Frankestein di coldirettiana memoria) sia sicuro al consumo per gli esseri umani.

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“Al momento non abbiamo dubbi sulla conclusione di GOOD Meat secondo cui gli alimenti composti da o contenenti materiale di cellule di pollo coltivate siano sicuri tanto quanto altri alimenti comparabili prodotti con altri metodi” si legge a tal proposito in una nota stampa emessa dall’ente sanitario. Stando a quanto lasciato trapelare, il progetto di GOOD Meat prevede di vendere i propri prodotti a partire dai ristoranti di proprietà di chef José Andrés, noto per il suo lavoro umanitario e nell’ambito della sicurezza alimentare globale.

Come abbiamo accennato in apertura di articolo, è passato un inverno intero dall’ultima notizia di questo genere in quel d’Oltreoceano; e non la domanda che ci sorge spontanea non può che essere: a che punto siamo, invece, da questa parte dell’Atlantico? Beh, bisogna ammettere che negli ultimi tempi i paladini del sovranismo alimentare sono stati soprattutto impegnati nel combattere la minaccia rappresentata dalla farina di grilli, ma in ogni caso si continua a stare in alto mare.

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Badate bene, il nostro non è un tentativo più o meno grossolano di fare dell’esterofilia a buon mercato; ma piuttosto un semplice paragonare, portando alla luce commenti e fatti, differenze che non dovrebbero passare inosservate. Vogliamo dire, con il cambiamento climatico che continua ad allungare la sua ombra sul mondo, e il nostro Stivale in particolare che si sta trovando a fare i conti con una siccità disastrosa che ha messo in ginocchio l’agricoltura, ci piacerebbe vedere delle risposte concrete, delle risposte lungimiranti, o più banalmente un atteggiamento un poco più costruttivo che definire  “uno schifo” una potenziale risposta al problema rappresentato dagli allevamenti intensivi, per dirne una.

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