Ebbene sì, l’hanno scritto: “ci vogliono ristoranti separati per adulti e bambini, ci vuole l’Apartheid”

Ebbene sì, l’hanno scritto: “ci vogliono ristoranti separati per adulti e bambini, ci vuole l’Apartheid”

Avete figli? Siete anche gourmet. Le due cose non si piacciono, ormai lo sapete. O meglio, il problema esiste e l’infinita querelle gastronomica – e di conseguenza dissaporiana – sul tema- assume contorni epici. O sfiancanti, fate voi.

Chi non li vuole nei ristoranti stellati, chi attua precise politiche per gestire la cosa, e chi li equipara ai cani.

E chi teorizza l’Apartheid. Addirittura? Un momento, ci arriviamo.

Immaginatevi alla fine della vostra settimana lavorativa: ecco, vi assale quel desiderio viscerale di mangiarvi la “concentrazione di ossobuco” di Bottura o la pizza con gambero crudo marinato di Sirani. Che fate coi bambini?

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A) Li portate con voi

B) Li lasciate dalla nonna

C) Vi cimentate nella preparazione casalinga dei suddetti piatti

D) Digiunate

Se la vostra risposta è la A preparatevi a subire l’Apartheid.

Sì, perché alla lista, sempre più frequente, di ristoranti dove i più piccoli sono visti come Gasparri in un convegno sulla filosofia della scienza cominciano ad attribuirsi termini forti. Direi disgustosi.

Tipo in Australia, dove la giornalista del Daily Telegraph australiano, Sarrah Le Marquand, ha infiammato il dibattito utilizzando proprio il termine, sinonimo di segregazione razziale, per descrivere questa “bambinofobia” al ristorante. Imboccando poi la strada del non ritorno.

Questa la sua proposta:

“I bambini vanno portati nei loro ristoranti. Organizziamoli in due tipi. Un tipo per i mangiatori con bambini al seguito. Un altro per chi si rifiuta di soccombere ai minori di 12 anni”.

 

L’articolo parte da un tweet provocatorio dello chef americano Grant Achatz, che l’anno scorso cinguettò di quanto fosse stato infastidito dalla presenza di una coppia con pargolo urlante nel suo ristorante Alinea.

Sommerso dalle critiche aveva bellamente risposto: “Portereste vostro figlio a teatro?”

Achatz, si è reso quindi portavoce dei gastro-single, diventando il simbolo di questo “partito” (nonostante abbia giudicato l’articolo del Daily Telegraph “il peggiore mai scritto sul locale” proprio per l’utilizzo del termine Apartheid).

Un po’ come il nostro Nerio Breghi, patron della pizzeria gourmet Sirani di Bagnolo Mella, che vieta l’ingresso agli infanti dopo le 21, con tanto di cartello/divieto. La causa è la maleducazione dei genitori, dice, e io un po’ gli credo. Anche se la logica spesso evocata nei vostri commenti del “decide lui le regole” mi fa sempre venire un brividino sulla schiena.

Quindi, in attesa di vedere sullo stipite un adesivo recante la scritta: “qui i bambini non possono entrare”, mi chiedo se sia più una questione di politically correct o di egoismo.

Egoismo dei genitori nel portare un bimbo di pochi mesi al ristorante per soddisfare un loro desiderio o egoismo del ristoratore nel rifiutare la presenza di un possibile “ disturbatore”?

Oppure sta tutto nella buona coscienza ed educazione dei genitori: alla fine se possono permettersi un pasto da 60 euro a portata potranno anche permettersi la babysitter (o no?).

Aiutatemi a trovare un capo alla questione una volta per tutte: meglio rinunciare alla vostra cena per educazione nei confronti degli altri commensali o sentirsi emarginati?

Voi da che parte state? Ma soprattutto, al ristorante probimbi, trovo un ricordo di un panino alla mortadella?

[Crediti | Link: Dissapore, Daily Telegraph Australia]