Cucina molisana: 20 piatti tipici da provare

La cucina molisana è legata a cereali, legumi e carni. Ecco i suoi 20 piatti tipici da provare: panonta, cavatelli, fusilli, sciusci, pigna, sciatun.

Cucina molisana: 20 piatti tipici da provare

Cereali, legumi, carni genuine e verdure spontanee: così il Molise ci regala le basi della dieta mediterranea, tutto entroterra e un respiro di mare sul fianco destro. La cucina molisana agricola e pastorale si fregia di prodotti autoctoni e ricette che, inevitabilmente, si intrecciano a quelle delle regioni limitrofe.

Oggi vi raccontiamo i 20 piatti tipici da provare in Molise: dagli antipasti corposi come panonta, scattone e pizza di mais ai numerosi formati di pasta (fusilli, cavatelli, frascatielli, zengarielle), fino ai secondi di carne ovina e pesce di scoglio e i dolci delle feste, compresi sciatun, pigna pasquale e rosacatarre.

Panonta

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Gli Italian sandwich d’oltreoceano – quelli che, per capirci, a forza di strati multipli di affettati e formaggi in combinazioni improponibili sembrano ubbidire alla forza di gravità per miracolo – gli fanno un baffo alla panonta. Davvero. La pagnotta farcita molisana è un capolavoro architettonico ad alto tasso calorico, ma oh come non ci si pente. Specialità di Miranda e Roccasciura, la panonta viene tradizionalmente preparata in occasione della festa di Santa Lucia. Secondo la leggenda, la santa si rifugiò nei pressi di una grotta per sfuggire ai suoi persecutori: da allora la stessa grotta è meta di pellegrinaggio estivo e accampamento ideale per il picnic, con la panonta a fare da azzeccatissimo pranzo al sacco (o antipasto per metabolismi più veloci di Jacobs).

La prima cosa da sapere sulla panonta è che il suo assemblaggio non assomiglia nemmeno lontanamente a quello di un semplice panino. Innanzitutto è buona norma prepararla il giorno prima, in modo tale che la pagnotta (casereccia) assorba bene i condimenti diventando, appunto, onta. Poi c’è la questione degli strati: salsiccia di maiale, pancetta e peperoni rossi non si soffriggono certo da soli, per non parlare dell’immancabile frittata che con il suo peso specifico si merita il primo piano di questo grattacielo mangereccio. Naturalmente vale il detto “paese che vai, panonta che trovi”, e in giro per il Molise non mancano varianti con formaggi e altri insaccati: tra tutti citiamo i Presìdi Slow Food Abatina, Ventricina di Montenero di Bisaccia e Signora di Conca Casale.

Scattone

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Prima di addentrarci in questo curioso “aperitivo” è doveroso fare un passo indietro. Ossia a quelle stesse sagne (pasta a formato rettangolare) che abbiamo già incontrato nella cucina abruzzese. Come tanti altri piatti molisani le sagne sono largamente condivise fra le due regioni, spesso e volentieri con accompagnamento di fasciuol (fagioli, cicerchie, ceci) e un pezzettino di vrucculare (guanciale), lardo o salsiccia per insaporire. Bene, questo il piatto di pasta: ma cosa succede all’acqua di cottura? La cosiddetta vroda o acqua bollente salata mischiata a vino rosso e peperoncino veniva riciclata in passato come antipasto per stimolare la fame. Si parla naturalmente di un passato contadino fatto di lavori faticosi e all’aperto in cui non esistevano bibite energetiche e ricariche di sali minerali in bustina: così nasce lo scattone, piatto caldo corroborante per la fatica e apri-stomaco per il pasto principale. Oggi lo scattone è mero folklore e da antipasto si è trasformato in aperitivo alternativo (del resto, si beve) da proporre con spirito goliardico a forestieri ignari. Oh, magari qualcuno apprezza e in caso contrario beh, stringete i denti e pensate alle sagne che vi aspettano!

Sciusci

anelli di cipolla fritti ricetta

Non la versione molisana del pesce crudo giapponese: ri sciusci o soffi di Venafro e dell’Alto Volturno sono ciambelline di pasta fritta tipiche del Capodanno. A fronte di una lista ingredienti davvero cortissima (farina, rosmarino, acqua, sale, lievito più olio per friggere), i sciusci hanno un paio di segreti del mestiere nascosti nella manica. Primo, l‘acqua infusa di rosmarino: non si tratta soltanto di incorporare i due ingredienti nell’impasto, ma occorre far bollire lentamente l’erba aromatica e attendere che il liquido si riduca di almeno un terzo e diventi di colore verde. Secondo, la lavorazione dell’impasto che dà il nome al piatto: sbattendolo vigorosamente, deve formare delle bolle d’aria che scoppiano in piccoli soffi. In passato questa operazione era riservata alle donne le quali, dopo la lievitazione nelle apposite ceselle (contenitori in legno), “schianavano” la pasta nella notte fra il 30 e 31 dicembre. Il giorno di San Silvestro i sciusci venivano fritti in massa e distribuiti fra canti, balli e parecchi bicchieri di vino a propiziare il nuovo anno.

Pizza di mais

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Il Molise è terra agricola, su questo non c’è dubbio, e lo dimostra la forte e persistente triade cerealicola formata da frumento, farro e mais. Quest’ultimo esiste nella varietà autoctona Agostinello, il grandinje a ott file (grano d’India a otto file) o granone protagonista di pane, dolci, polente e soprattutto “pizze”. Di base farina di mais, olio extravergine e sale a formare un disco dorato la cui cottura tradizionale avviene “sotto la coppa”, ovvero nel camino sotto un coperchio di ferro ricoperto da braci ardenti. La pizza può essere gustata tal quale o con impasto arricchito di ciccioli, peperoncino e semi di finocchio; farcita diventa pizza onta con varianti infinite da baccalà fritto a filetti di acciughe, salsiccia arrostita, cimaroli (peperoni) fritti, sugo di pomodoro. Una variante piuttosto elaborata è la frùffela de bujane (o pizza e menestra, mpaniccia, mpanatella) con legumi e verdure: il composto a fuoco lento di scarola, verza, fagioli rossi e carne di maiale viene amalgamato alla pizza sbriciolata e servito come caldo piatto unico.

Infine, sempre a proposito di pani azzimi, citiamo la pizza scema di San Martino. Analisi grammaticale: pizza vuol dire più “torta salata”, scema sta per assenza di lievitazione, di San Martino perché in passato veniva preparata l’11 novembre. Tuttavia ancora più bizzarra è sicuramente l’usanza legata al suo consumo: divisa in spicchi, in ogni fetta veniva nascosto un seme (di ciliegia, fava, orzo, avena, zucca e via dicendo) a cui era associato un significato preciso. Chi lo trovava si trovava affibbiato l’etichetta corrispondente e, in qualche caso, doveva pagare penitenza. Insomma, una roulette per divertirsi in famiglia e magari lanciare qualche frecciatina senza esporsi troppo.

Scescille

polpette al sugo

Di pallotte cacio e uova abbiamo parlato in più occasioni. Oggi tocca alle scescille, polpette termolesi tipiche di quella striscia costiera che a malapena si affaccia sull’Adriatico. Rispetto alle cugine abruzzesi, gli ingredienti sono pressoché gli stessi: uova, pane raffermo, formaggio, salsa di pomodoro, un classico del recupero insomma. Le differenze principali stanno nella cottura (le scescille non sono fritte ma rosolate direttamente nella salsa) e nella modalità di consumo. Sembra infatti che queste palline compatte di forma allungata e ovale andassero ad arricchire un altro piatto “povero” tipico di Termoli, u’bredette o brodetto di pesce del pescatore. Provare per credere, compresi i puristi che storcono il naso di fronte all’abbinamento pesce-formaggio.

Cavatelli

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Di paste trascinate l’Italia meridionale (con la Puglia centro nevralgico) è piena zeppa. Dal Molise arrivano i cavatelli o cuzzetielle, antico formato di pasta incavata le cui origini si fanno risalire ai tempi di Federico II. L’incavatura, ottenuta con abile movimento coordinato di indice e medio, è indubbiamente il segreto del loro successo. È infatti l’ideale per raccogliere e assorbire i condimenti: si va dal semplice ragù di lepre o cinghiale alla versione vegetariana con spigatelli, i broccoletti o cardoncelli selvatici saltati in olio e peperoncino. Da provare i cavatelli al sugo “vedovo” di Montenero, cosiddetto per assenza di carne se non fosse per la ventricina locale o lardo soffritto con aglio, prezzemolo e pomodori.

Fusilli

fusilli ai peperoni su un piatto

Un altro grande colpaccio della pasta molisana sono i fusilli. Non servono presentazioni, giusto? Un ripasso però non fa mai male: la pasta ad elica diffusa in tutto il mondo ha avuto origine proprio qui, e hai voglia a dire che il Molise non esiste. Il fusillo si ottiene mediante il caratteristico fuso o filo di ferro intorno al quale la pasta fresca viene attorcigliata e lasciata ad essiccare. Il primo da assaggiare è, ça va sans dire, fusilli alla molisana conditi con sugo di carne di agnello e una bella spolverata di pecorino. Da conoscere anche le cosiddette droqe o drocchie che stanno a metà strada tra fusilli e cavatelli. La ricetta tipica di Montecilfone (con sagra dedicata il 14 agosto) ha per protagonista il ragù di salsiccia di fegato di maiale, condita con peperoncino e javall o peperone dolce essiccato al sole.

Frascatielli

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Di fronte alle curiosità, lo sapete, Dissapore non si tira indietro. Per questo abbiamo deciso di includere un formato di pasta molisano poco mainstream ma molto interessante. I frascatielli o frascateglie tipici di Jelsi e Montorio dei Frentani sono grumi sferici di semola ottenuti “benedicendo” la farina. Spieghiamo: dopo aver steso la farina sulla spianatoia, si spruzzano goccioline d’acqua fredda bagnandosi le mani o servendosi del mazziglio, piccola scopa di saggina da maneggiare come un aspersorio. Così facendo si formano piccoli grumi che vengono successivamente passati a setaccio, pronti per diventare un fumante primo di pastina adatto a tutte le età. Un tempo venivano direttamente sbriciolati nel calderone di rame (cuttora) appeso nel camino e lasciati sobbollire, da cui il detto “Pare ru chellare d’ì frascatielle” riferito ai brontoloni che similmente “borbottano”. I frascatielli si servono cotti direttamente nel brodo di gallina o pecora come minestra, oppure scolati e conditi al sugo. Ecco qualche ricetta tipica: da Campobasso frascatielle larde e petresinere, ovvero lardo con cipolla e prezzemolo fritti; a Montorio dei Frentani invece sono immersi in brodo di carne o asciutti con sugo al pomodoro.

Zengarielle

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La triade cerealicola molisana si chiude con il farro, cereale antico già noto ai tempi di etruschi, sanniti e romani. Coltivato da millenni nell’ager larinum, corrispondente all’odierna Larino, è oggi considerato PAT con la dicitura “Farro Dicocco Molise”. Nei secoli la sua coltivazione è stata progressivamente abbandonata in favore del più redditizio frumento, ma fortunatamente resistono i piatti tipici di zuppe e prodotti da panetteria. Fra questi citiamo le zengarielle, spaghetti spessi di farro legati in particolare alle festività natalizie: la Vigilia è infatti il momento canonico delle zengarielle ‘che la mullica condite con olio, acciughe e briciole di pane. Momento di sensibilizzazione culinaria: con tutti i benefici del farro (integrale, ricco di vitamine, altamente digeribile, versatile) ricordiamoci di consumarlo più spesso e non riservarlo soltanto alle occasioni speciali!

Altro formato di pasta lunga da tenere presente sono i crioli, spaghetti all’uovo a sezione quadrata. L’aspetto ricorda gli spaghetti alla chitarra della tradizione abruzzese, mentre il nome (che deriva dai lacci delle scarpe) ci riporta immediatamente ai curzul della cucina romagnola. Coincidenze? Forse, ma non nel condimento: oltre al ragù (di maiale, pecora, anatra) è da provare la ricetta natalizia con noci e baccalà.

Agnello, pecora e castrato

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Anche in tema secondi di carne il Molise si rivela estremamente vicino alle dirimpettaie Basilicata e Abruzzo. Mentre il maiale è riservato per lo più a salumi e insaccati, i veri campioni della ciccia sono gli ovini: agnello, pecora, castrato. Questa sezione è dedicata ai tanti piatti che li vedono protagonisti, quindi mettetevi comodi. Partiamo dalla pezzata che, manco a farlo apposta, è tipica di Capracotta: piatto di origine transumante, si tratta di pecora cotta a lungo nella u’ cutrlloccia o calderone di rame stagnato insieme a patate e pomodori. Rimanendo in zona troviamo la ciavarra, stufato di pecora giovane, e i nodera de’ trippette agnonesi, interiora annodate al pomodoro. Sempre in tema di trippe, le mazzarelle di capretto e patate cotte alla brace, gli gnumarieddi o torcinelli presi in prestito dalla Puglia e u’ zeppettone di Trivento, trippe e fegatini cotti in tegame.

La pecora è anche alla brigante (allo spiedo) e a pezzettoni nella miscischia di Guardialfiera, cucinata nel vino e ripassata in forno. L’agnello va dal casce e ova comune alla tradizione abruzzese al cosciotto ripieno (di lardo), e non mancano le versioni stufate o al forno con muscari (lampascioni) e cicoria. A Montenero di Bisaccia si prepara il castrato in umido alla baraccara con pomodorini e peperoni: il titolo è preso in prestito dall’omonima fiera di San Zenone del 9 luglio di cui il piatto è mascotte ufficiale. Infine le cuccette, testine di agnello o capretto cotte in teglia con mollica di pane, aglio e prezzemolo.

Pampanella

costine di maiale affumicate

San Martino in Pensilis ci regala un piatto che non avrebbe sfigurato nelle Bucoliche di Virgilio. La pampanella prende il nome dal pampinus, pampino o foglia di vite in cui anticamente venivano avvolte le pietanze in fase di cottura. Oggi di quelle vestigia da divinità dell’Olimpo è rimasta tutt’al più la carta paglia, ma in fondo a noi interessa quello che c’è dentro quindi poco male. In questo caso si tratta di filetto di maiale speziato con aglio e peperoncino: la carne viene marinata a lungo con gli aromi, quindi posta in forno con copertura umida e irrorata di aceto bianco. Il poeta sanmartinese Domenico Zurro le ha dedicato versi a dir poco entusiasti: “A pambanelle è ‘na specialità, perciò nesciune ci’a po’ squerdà e sole a San Martine e sanne fà”. Unforgettable pampanella.

Baccalà ammullecate

finocchi gratinati

C’è una regione italiana che non abbia in repertorio una ricetta di baccalà? Poco probabile, ormai ci siamo abituati. Oltre a comparire nei sughi per la pasta (i già citati crioli ma anche sagne e tacconelle), il secondo immancabile è il baccalà ammullecate o arracanate tipico di Campobasso, Civitanova e Termoli. Si tratta, in sostanza, di baccalà gratinato con aggiunta di abbondante mollica di pane raffermo. Le variabili sono costituite da odori e spezie: fra i più usati ci sono origano, uva passa, gherigli di noce, fichi secchi, aglio e prezzemolo. Come spesso accade ai piatti di pesce della tradizione, il baccalà ammullecate è perfetto per l’osservanza del calendario di magro e col tempo è diventato sinonimo di festa religiosa, dalla Quaresima all’Avvento.

U’ bredette

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U’ bredette o vredette, lo abbiamo già citato, è il brodetto di pesce termolese di Tornola, centro storico della città. Sarà anche l’ennesima versione della cucina marinara affacciata sull’Adriatico, ma di fronte a un sughetto così invitante non ci si stanca mai. Guardiamolo più da vicino allora: gli ingredienti variano a seconda del pescato del giorno, ma alcuni capisaldi sono lupini (vongole), vocchncape (lucerne), ntriccicarelle (galletti), cozze, cannocchie, tracine, scorfani. Non manca davvero niente, molluschi, crostacei, salsa di pomodoro e una punta di peperoncino. Tutto si cuoce nello stesso tegame (possibilmente di terracotta), ogni elemento aggiunto a seconda dei suoi tempi di cottura, mai girato né mescolato. Se siete fortunati, il coccio fa direttamente da piatto: a quel punto basta munirsi di pane casereccio e beh, godere a ogni morso.

Zuppa alla santè

zuppa

Cambiamo decisamente zona, circostanza e ingredienti. La zuppa alla santè tipica di Agnone e Venafro è una minestra da grandi eventi: il nome, dal francese santé, sta per “alla salute” in segno di buon augurio e per questo viene tradizionalmente preparata in occasione di feste religiose, matrimoni e battesimi. Secondo alcuni il significato è leggermente diverso: leggenda vuole che la ricetta sia stata inventata da un cuoco di Agnone a cavallo fra Trecento e Quattrocento in onore di Giovanna II, regina di Napoli. Costei, parrebbe, frequentava spesso la zona per visitare uno o più amanti. A tal proposito serviva una pietanza corroborante per recuperare le energie, da cui la zuppa della salute. In sintesi, tanti auguri a chi tanti amanti ha, Raffaella aveva capito tutto.

Come è composta? La base è di brodo di gallina in cui viaggiano polpette di vitello, fette di pane fritte, uova sode, scarola e caciocavallo. Quest’ultimo non può che essere Caciocavallo di Agnone, PAT e Arca del Gusto Slow Food caratterizzato dalla stagionatura in grotte naturali. A volte, per non farsi mancare niente, in ultimo vengono aggiunti petto lesso di gallina e addirittura interiora, fegato e cuore compresi. Tutta salute, anche troppa.

La pia

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A Sant’Agapito e Monterotundi la Pasqua si omaggia con la pia, sformato di grano con salsiccia, prosciutto, scamorza e pecorino. Grani e chicchi sono da sempre simboli rituali: lo abbiamo visto con la cuccìa calabrese associata alla commemorazione dei defunti, e crapiata lucana, consumata in rito collettivo per celebrare il raccolto. Anche in questo caso il grano cotto è metafora di abbondanza e fertilità, e perché no, resurrezione viste le tempistiche. Lo sformato viene cotto in forno nella tiana o tegame in terracotta fino alla formazione della fragrante crosta superficiale. Più che una portata da pasto principale, la pia è il dopocena del Sabato Santo o la colazione salata della domenica di Pasqua.

Sciatun

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A metà strada fra dolce e salato troviamo r sciatuncasciatielli, parenti strettissimi dei fiadoni abruzzesi e legati in particolare alle festività pasquali. In entrambi i casi si tratta di piccoli panzerotti al formaggio con qualche differenza di forma e dimensioni: rispetto ai fiadoni infatti, i sciatun assomigliano più a ravioli a forma di mezzaluna. Vediamo qualche variante: a Santa Croce di Magliano sono ripieni di ricotta salata, pecorino, parmigiano, uova e prosciutto crudo; ad Agnone solo formaggio vaccino più salsiccia secca e salame il giorno stesso di Pasqua; a San Giuliano del Sannio fritti in versione dolce con ripieno di uova, ricotta e canditi. Già che ci siamo, citiamo una serie di dolcezze condivise con le regioni limitrofe: calcioni, ferratelle e pepatelli (qui ‘mpepatelli) con l’Abruzzo, cicerchiata con le Marche, taralli dolci con la Puglia, roccocò e pastiera con la Campania. Nota finale sulla pastiera molisana tipica del Sannio, caratterizzata dall’assenza di canditi e acqua di fiori d’arancio e riso al posto di grano bollito.

Calzone di San Giuseppe

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I calzoni di San Giuseppe sono tipici di Riccia, comune in provincia di Campobasso famoso per l’architettura, i fagioli bianchi autoctoni e l’impegno per celebrare al massimo le festività. Sentite qua: tutto nasce da una vicenda mitica, ovvero la comparsa di San Giuseppe nelle vesti di straccione vagabondo che soltanto a Riccia trovò qualcuno disposto a ospitarlo. Da quel giorno per festeggiarlo (due volte l’anno, il 19 marzo e 1 maggio) si allestisce un pranzo a 13 portate di cui i calzoni o cavuzune sono i “messaggeri”, ovvero simbolo di buona creanza. Essi infatti non vengono venduti (in teoria), ma soltanto scambiati o donati in nome di quell’ospitalità originale che ancora oggi porta il buon nome dei riccesi nel mondo. La particolarità dei calzoni è il ripieno di ceci che richiama il semplice pasto offerto al santo dal suo benefattore. Altri ingredienti sono zucchero, miele e cannella, mentre la sfoglia semplice è a base di farina, uovo e strutto. L’altro dolce di San Giuseppe a Riccia è l’agrodolce o ariedoce, una sorta di croccante alle mandorle con vino cotto, uvetta, zucchero e miele.

Pigna pasquale

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Un altro classico festivo molisano è la pigna o panettone di Pasqua che, come sanno gli aficionados, a Dissapore approviamo con entusiasmo. Si tratta di un pane dolce a base di patate lesse aromatizzato con limone e semi di anice. La forma varia tra quella di una panettone tradizionale, ciambellone o bundt cake: in tutti i casi la pigna viene servita ricoperta di glassa allo zucchero e confettini colorati. Simili per nome e per fattura le ‘mpigne, ciambelline di patate simili alle graffe napoletane. Infine, altri pani dolci tipici di Pasqua sono piccillati, carusielle e trecce dolci, queste ultime guarnite con uova e ramoscelli di ulivo.

Rosacatarre

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Il fritto è buono tutto l’anno, specialmente a Natale e Carnevale. Le rosacatarre tipiche di Larino sono le rose edibili che tanto assomigliano alle cartellate pugliesi. Si tratta di strisce di pasta (uova, olio e farina) avvolte a formare dei petali di rosa, quindi fritte e ricoperte di miele bollente. Le rosacatarre fanno parte dei PAT molisani insieme a un altro caposaldo fritto della pasticceria locale, i caragnoli o frittelle a forma di elica ricoperte di miele e confetti colorati.

Ceppelliate

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Chi li definisce biscotti ripieni, chi panzerotti, e aspettate di sentire quanti nomi hanno in Molise. Ceppelliate a Trivento, cielle rechine a Lucito, cellucce a Belmonte del Sannio, piccellate a Venafro. La sostanza (quasi) non cambia: involucro di farina, uova, zucchero, olio e limone, a volte latte, a volte vino; il ripieno di marmellata di amarene che può essere arricchito di noci, cioccolato, cannella, liquore, pane raffermo e scorza di agrumi. Chiamami col tuo nome, importa solo incontrarsi in un bacio appassionato e un po’ appiccicoso.