17 trend gastronomici di NYC che vorrei vedere più spesso in Italia

17 trend gastronomici oramai assodati a New York che vorrei vedere più spesso in Italia, dalla sacrosanta estinzione degli "all you can eat" alla democratizzazione dell'hype gastronomico.

17 trend gastronomici di NYC che vorrei vedere più spesso in Italia

New York City è la capitale gastronomica del cibo a livello mondiale. The city that never sleeps probabilmente sta sveglia per mangiare: con più di 23.000 ristoranti non è questione di imbarazzo della scelta, ma vera e propria follia. Non sorprende che da una città così variegata e in costante evoluzione partano trend gastronomici che riverberano fino a casa nostra. Da una parte perché il buzz che accompagna il munch del cibo non si arresta mai, dalle recensioni dell’autorevole New York Times fino, ad esempio, a noi di Dissapore. Dall’altra c’entra l’impressionante traffico umano che porta ed esporta la propria cultura gastronomica: un microcosmo di quasi 9 milioni di abitanti e più di 600 lingue parlate che cucina, mangia e inventa senza sosta.

Ho avuto la fortuna di passare parecchio tempo a NYC (la chiameremo così d’ora in poi per risparmiare tempo e caratteri) e di osservare quali sono i trend gastronomici che vorrei vedere più spesso in Italia. Dal pane a parte all’accessibilità di funghi e fermentati, dalla cultura del caffè ai bar senza alcol, e poi cenare con perfetti sconosciuti, comprare locale e avere la mente aperta sul cibo. Chiariamoci, non è tutto oro quel che luccica. Ci sono moltissimi aspetti oscuri che non vorrei mai e poi mai vedere qui da noi. La cultura delle mance che di fatto giustifica gli stipendi da fame del settore ristorazione; i costi esorbitanti per mangiare fuori e fare la spesa, specie di frutta e verdura; i livelli di zucchero e sale in tantissimi e insospettabili prodotti (leggere sempre le etichette!); le differenze fisiche e sociali tra chi possiede l’impossibile e chi ha meno di zero.

Nonostante ciò, considero questa città e il suo rapporto con il cibo la realtà più eccitante e stimolante che ci sia. E vi spiego perché, attraverso 17 trend gastronomici di NYC che vorrei vedere più spesso in Italia.

Pane a parte

CEstino pane - Qqucinaqui

Meno spreco, più qualità: questi i miei two cents sul servire il pane a parte nei ristoranti. A NYC lo trovate all’inizio del menu alla voce “bites”, quasi sempre accompagnato con olio o burro da spalmare. Spesso arriva da She Wolf Bakery, Bread and Salt, Bread Alone, Leo Sourdough e altri panifici artigianali di successo. Togliere il cestino non richiesto mi sembra una soluzione più che ovvia al mostruoso spreco alimentare che in Italia riguarda soprattutto il pane. Che poi nella maggioranza dei casi si tratta di un prodotto mediocre, quando non scadente. Rendere il pane un piatto permetterebbe di fare ricerca e selezione, promuovendo piccole-medie realtà artigianali dove vale davvero la pena spendere quei 5-6 € equivalenti. E renderebbe noi clienti più consapevoli: su come viene fatto, quanta fame effettivamente abbiamo, quanto è buono il pane con P maiuscola.

Funghi fantastici e dove trovarli

funghi

Prataioli, porcini, pioppini, finferli, chiodini, trombetta, prugnolo, mazza di tamburo. L’elenco dei funghi nostrani potrebbe continuare a lungo ma poche voci bastano e avanzano per sottolinearne la visibile assenza, soprattutto al supermercato. Perché freschi si trovano (quando si trovano) solo champignons? Viceversa, anche i più piccoli marts di NYC pullulano di funghi interi o già tagliati: oysters, portabella, pleurotus, lion’s mane, cremini, shiitake, maitake, shimeji. Poco calorici, ricchi di proprietà e ottimi sostituti della carne per gusto e consistenza, i funghi dovrebbero essere una costante della dieta quotidiana. Invece, pur avendoli, facciamo fatica a incorporarli. Basterebbero accessibilità e varietà per realizzare quanto fantastici siano questi funghi, in cucina e nell’organismo.

Più pickles per tutti

fermentare le verdure

I benefici dei cibi fermentati ormai li conosciamo a menadito. Da gusto a digeribilità, benessere del microbiota intestinale, alto valore nutritivo. A NYC ne vanno ghiotti e i pickles o verdure fermentate sono ubiquitari. Ogni ristorante ne ha una propria versione e al supermercato si prendono interi frigoriferi: kimchi, cetriolini, daikon, carote, cavolfiore, cavolo cappuccio, rape e via dicendo. La domanda di prima è ancora valida: perché in Italia si fa così fatica a trovarli? A meno di recarsi in market biologici iper-specializzati o direttamente online a suon di spese di spedizione, la ricerca è un buco nell’acqua. Certo si potrebbero fare in casa, direte voi. Ma prima il gusto bisogna acquisirlo, e dove altro può avvenire l’imprinting se non durante la spesa o la cena fuori? Io dico più pickles per tutti, per arricchire bowls e insalate ma anche la nostra preziosa flora batterica.

Cultura del caffè

caffè filtro; specialty coffee

Qui mi salterete alla gola: la cultura del caffè è di gran lunga superiore a NYC rispetto all’Italia. Ecco l’ho detto. E argomento. L’espresso medio nazionale è bruciato e fatto male; pretendiamo di pagarlo 1-1,50 € e ci si meraviglia di scarsa qualità, filiera opaca e zero sostenibilità; al bar lo trangugiamo in piedi manco fosse uno shottino e gustarlo non è contemplato. Farlo in casa non va tanto meglio: al supermercato ci sono i soliti uno-due monopoli e poco altro tra cui scegliere; la moka se la usi bene non devi lavarla cantavano i Pinguini, e stop alle accortezze. Per citare un’altra canzone, where is the love?

A NYC ma non solo (fatevi un giro a Melbourne o Copenaghen per dirne due) al caffè è dedicata infinita attenzione. Dai più disparati metodi di estrazione – espresso compreso, servito cremoso con acqua frizzante à côté – che permettono di esaltare e non maltrattare la miscela. Alla tracciabilità spesso dichiarata insieme a provenienza geografica e note sensoriali. Alla possibilità di sostare a lungo in caffetteria (e quindi degustare il caffè) in ambienti curati e confortevoli. Infine il reparto caffè al supermercato dove, accanto a pochi marchi internazionali, spiccano una miriade di torrefazioni locali che si moltiplicano per provenienza e blend. Da noi, a parte un manipolo di specialty coffee nelle grandi città, tutto questo non avviene. Anzi, difendiamo a spada tratta una convinzione di superiorità distorta e infondata. Meditiamo, con un bel caffè degno di questo nome.

Sfuso accessibile

Il bulk o reparto dello sfuso è caratteristico di market e supermarket a NYC. L’intento è chiaramente quello di limitare l’usa e getta, che sia in carta, plastica o altri materiali. Alcune caffetterie, continuando con le buone pratiche in proposito, offrono addirittura un prezzo speciale per riempire la tazza/mug/borraccia portata da casa. Ora, i Newyorkers non si sono inventati niente, lo sfuso esiste anche da noi. Ma non è abbastanza dif-fuso. Spesso ne sono sprovvisti anche gli iper più grandi, a meno di recarsi in catene francesi dove l’abitudine è ben consolidata. I negozi specializzati poi sono mosche bianche, per di più mutanti e con una zampa sola. Insomma, poco o nulla. Se è vero che lo sfuso fa bene all’ambiente e al portafoglio (in media i prezzi sono minori al chilo) dovremmo prendere esempio. E rispolverare quelle belle maison jar (aka barattoli di vetro della nota marca di miele) che fanno tanto shabby chic.

Avena di default

cappuccino-latte-avena

Il cappuccino in Italia è di soia, punto e basta. A NYC invece la tendenza è avena di default, oat milk per la precisione (la Food and Drug Administration ha da poco decretato che le bevande vegetali si possono etichettare ‘latte’). E i coffee baristas sembrano convergere su questo punto: latte di avena è meglio di soia per il caffè. Per il gusto innanzitutto, ma anche per sostenibilità e performance in tazzina. C’è anche da dire che spesso per una buona soia da caffè servono molti additivi e non basterebbero i semi di soia, acqua e sale della ricetta base. L’avena invece è naturalmente dolce e cremosa, facile da montare e a prova di baffo. Got milk?

Pasticceria vegana degna di questo nome

Pasticceria Vegana

Il vegan in Italia lo abbiamo sdoganato con buona pace degli haters. Ma che dire della pasticceria vegana? L’unica alternativa a livello commerciale sembra essere lo striminzito cornetto vegano da banco, e io direi anche basta. O almeno, non solo. A NYC dove notoriamente hanno occhio per l’inclusività (dietetica e non) anche un coffee shop qualunque ha più creatività dell’intera catena Autogrill. Cookies, brownies, donuts, tarts, pies, cheesecakes, breads, cinnamon rolls. Non sempre fatti in casa, spesso distribuiti dai soliti noti di garanzia come Sixteen Mill e Knead Love Bakery, ma ehi almeno ci sono!

Per non parlare di vere e proprie pasticcerie 100% vegane, piccoli paradisi di Willie Wonka senza burro, uova e gelatina. Qui lo sweet tooth è davvero senza peccato, dai croissant (loro sì) degni di questo nome a elaborati dessert buoni anche solo da guardare. Alla luce di ciò chiedere un’alternativa dolce vegana degna di questo nome mi sembra il minimo, soprattutto nella patria dei contest di panettoni e dell’aura di santità che circonda personalità come Massari e Knamm. Un po’ di creatività, suvvia!

Analcolici, mocktails e bar zero-proof

Healty Cocktail

L’OMS dice che l’alcol è cancerogeno e, polemiche a parte, tutti siamo d’accordo che faccia male specie se in consumo eccessivo. Gli americani per limitarsi avevano già da tempo inventato la challenge del Dry January, un mese di sobrietà strategicamente posto dopo i bagordi festivi. I Newyorkesi hanno alzato la posta con una nuova tendenza gastronomica: essere sobri tutto l’anno, ma farlo in modo creativo. Per questo in menu troverete sempre una ricca sezione di alternative analcoliche che non siano soda commerciale: kombucha craft, shrubs a base di aceto, birre locali senza alcol, toniche botaniche. Accanto ai cocktails si sviluppano sempre di più liste di mocktails curate ed elaborate, niente a che vedere con i mix caramellosi a base di succo e granatina. E adesso stanno spuntando dappertutto bar zero-proof o a gradazione zero, la quintessenza del bere bene senza una goccia di alcol. E dimostrare che non serve per forza alzare il gomito per socializzare e divertirsi. Cheers!

All you can (not) eat

Sushi

L’all you can eat a NYC è pressoché estinto. Cercatelo, chissà forse dalle parti di Times Square dove ormai si aggirano solo turisti. Fatto sta che questa fabbrica di spreco è incomprensibilmente più viva e attiva che mai in Italia, la presunta “patria del mangiar bene”. Ma cosa c’è di bene nello scofanarsi l’impossibile a 25€? Ma voi che li frequentate vi chiedete cosa state mangiando, da dove arriva, come è fatto? Nessuno qui è senza peccato, da me che in una vita precedente ogni tanto ci sono stata, alla municipalità di NYC che su 23.000 ristoranti almeno un all you can eat ce lo ha di sicuro. Tuttavia la tendenza è sicuramente in forte declino e mi auguro che prima o poi anche qui avvenga lo stesso. Perché il paradosso di mangiare tutto a prezzo minimo sputa in faccia a tutta la filiera, da chi quel cibo lo ha raccolto a voi che vi mangiate… quello che riuscite a mandar giù.

Made in NYC

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Il marchio ultra locale è una peculiarità della città di New York e specialmente di Brooklyn, dove vecchi magazzini e grandiose aree smesse si sono reinventate birrifici, torrefazioni, fabbriche di cioccolato, laboratori di fermentazione. Prodotti artigianali, a chilometro (anzi miglio) zero, buoni e creativi. Per acquistarli non occorre per forza recarsi in sede (anche se consiglio fortemente visto che alcuni propongono degustazioni e tour dietro le quinte) o cercarli in negozietti hipster underground. Il bello dell’orgoglio americano è l’accessibilità a questi prodotti, dalle grandi catene di supermercati ai featuring sui menu di caffetterie e ristoranti.

E allora io mi chiedo: con la nostra estrema diversità regionale, per non dire municipale, perché non dare più visibilità alle micro imprese locali? L’esempio classico è la lista di birre artigianali in pizzeria, dove guarda caso il 99% delle volte vengono proposte versioni “artigianali” dei marchi commerciali. Sul caffè mi sono già espressa, ma potrei dire lo stesso di miele, conserve, vino addirittura. Andate al pub, in enoteca, al supermercato e ditemi quanti prodotti provengono effettivamente dal luogo in cui vi trovate. Le occasioni ci sono, bisogna saperle cogliere.

Mercati contadini

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Comprare locale vale anche per i prodotti freschi. A NYC i farmers’ markets o mercati contadini sono un appuntamento che scandisce la settimana dei vari neighborhoods, da Union Square a Fort Greene, McCarren Park a Greenpoint e 97th St nell’Upper West Side. La sequela di organizzatissimi gazebo bianchi propone di tutto: varietà di mele antiche, erbe fresche, distillati fatti in casa, trote dei Finger Lakes, formaggi dall’Hudson Valley, miele selvatico da Upstate New York. E poi oggettistica artigianale, pranzi take out preparati sul momento e addirittura stazioni di compostaggio per raccogliere i rifiuti organici.

L’atmosfera è decisamente diversa dal mercato rionale nostrano, dove la frutta e verdura assomiglia terribilmente a quella del supermercato senza indicazioni sulla provenienza e stagionalità piuttosto dubbia. I mercati contadini o biologici in Italia sono ancora una minoranza, più appannaggio delle grandi città che dei piccoli centri. È un paradosso, visto che le produzioni sono per forza di cose periferiche e che, ribadisco, le eccellenze non ci mancano. Comprare bene significa mangiare meglio, promuovere il proprio territorio e magari farsi due chiacchiere con il produttore che c’è sempre da imparare.

Perfetti conosciuti

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L’essere umano si distingue dalle altre specie anche per la dimensione sociale del cibo. La tavola diventa mezzo di consolidamento delle relazioni: famiglia, amici, colleghi, il “branco” in qualche modo. In Italia questa dimensione è fortemente sentita, soprattutto in ambito casalingo. A NYC spesso il concetto viene ribaltato: ovvero andare a cena con perfetti sconosciuti con l’obiettivo non tanto di rafforzare le amicizie, quanto di stringerne di nuove. Dinner parties, cene pop up, serate a tema con musica sono tutte occasioni per conoscere gente e in cui il cibo non passa assolutamente in secondo piano, anzi. I piatti sono un delizioso rompi ghiaccio su cui confrontarsi, seguito subito dopo dai rispettivi outfit (a NYC hai stile anche se sei in pigiama) e da cosa ci fai in città, what do you do for a living? Al nostro modo di fare gruppo “esclusivo” (mangiamo con chi conosciamo) auguro di uscire ogni tanto dal seminato, in ambito sociale quanto gastronomico.

Piatti al centro (tavola)

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These are meant to share, quante volte vi sentirete ripetere questa frase a inizio cena in un qualsiasi ristorante di NYC. Prendere tanti piattini da condividere fa ormai parte del tessuto social-gastronomico della città. A volte, lo ammetto, è un po’ una fregatura perché i suddetti piattini sono davvero -ini e da condividere c’è un boccone a testa, per giunta a prezzo esorbitante. Ma la formula funziona e ha più di un vantaggio: la possibilità di provare gran parte del menu, dividere il costo a metà e fare sobremesa, il termine spagnolo che indica l’indugiare a tavola chiacchierando. Insomma, andare al ristorante e godersela condividendo qualcosa in più degli interessi in comune. In Italia si fa, ma le roccaforti del piatto di pasta o pizza individuale sono ancora invalicabili: staremo a vedere, ognuno con la forchetta pronta a colpire.

Imprenditori del fatto in casa

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Il sogno americano è la micro impresa che prende piede, con una spintarella data dai social. A NYC nel periodo post-quarantena si sono moltiplicati gli imprenditori del fatto in casa: home bakers, pasticcieri, cuochi, fermentatori. C’è chi è partito dal proprio appartamento (L’Appartement 4F) e con il passaparola si è fatto brick and mortar, ovvero punto vendita fisico. Chi (Yungkombucha, Gigi’s Little Kitchen) documenta quotidianamente la produzione casalinga e nel frattempo viene menzionato da Vogue e New York Times. E ancora chi (Ginjan) con perseveranza e spirito di rivalsa arriva al successo onorando le proprie radici. Sfondare non è semplice, ma nemmeno così impossibile come in Italia. Giovani talentuosi del cibo fanno fatica a rimanere non dico nella propria città, almeno nei confini nazionali: burocrazia, tasse, ristagno del mercati, in molti casi mafia intervengono a spegnere idee belle e innovative. E mentre questi fuggono altrove, magari proprio al di là dell’Atlantico, noi si resta letteralmente a bocca asciutta.

Hype gastro-democratico

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L’entusiasmo per il cibo in ogni sua dimensione è ciò che caratterizza il rapporto del Newyorkese medio con il mangiar fuori. Che sia il panino del deli, l’esperienza multisensoriale in cima al grattacielo, il food truck al parco o il nuovo menu nel bistrot di quartiere, l’hype è decisamente democratico. Io stessa ho fatto code più lunghe di un’ora per il mitico dosa del carrettino a Washington Square Park, e allo stesso tempo stalkerato i siti di prenotazione online con settimane di anticipo per visitare il locale in del momento.

Un clamore dunque che circonda non solo ristoranti fighetti e chef stellati come avviene qua in Italia e che trapassa tutte le categorie dell’edibile. Anche la critica gastronomica rispetta questa tendenza. Prendiamo Pete Wells, food critic del New York Times le cui reviews possono decidere vita, morte e miracoli di un ristorante. Negli ultimi anni è stato capace di recensire un mom-and-pop di tamales, un classico diner e una vera e propria roulotte che serve lechon di maiale portoricano. Mi auguro anche qui una critica guidata non da marchette e comunicati stampa, ma dall’autentica ricerca per il buono che racconti storie e faccia vivere emozioni.

Meno etnico, più autentico

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A NYC le culture sono talmente tante e variegate che la cucina si fa regionale, quando non addirittura di provincia. Il ristorante cinese è un esempio classico: esiste sì il chop suey di ispirazione occidentale, affiancato però da cucine del Szechuan, di Shanghai, Taiwan, Guangdong tutte differenziate fra loro. Lo stesso vale per gli “arabi” (yemeniti, palestinesi, siriani), gli “africani” (senegalesi, etiopi, nigeriani) e così via. E anche all’interno di una stessa cultura non mancano le sfumature. Un ristorante giapponese può essere specializzato in sushi, ramen, tsukemen, soba, curry, yakitori ma mai tutto insieme. Un po’ come se da noi qualcuno entrasse al ristorante e si aspettasse di trovare pizza, cassoeula, brodetto e cassata tutti fatti a regola d’arte.

Il bello delle cucine vere è che sono tutto tranne che uno stereotipo. Ancora da noi prevale l’etnico sull’autentico, un mescolone standardizzato e allineato su un gusto che fondamentalmente non esiste. L’occasione di scambio e conoscenza passa prima di tutto dal cibo, una preziosa opportunità per chi arriva (le comunità migranti) e chi grazie ad esso può imparare ad accogliere (noi, l’Europa, l’Occidente). Facciamo tesoro della diversità, le papille ringrazieranno.

A bocca (e mente) aperta

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Questo è probabilmente il paragrafo più difficile da scrivere, finanche peggio di quello dedicato al caffè. Perché vado a toccare quel misto di pregiudizio, campanilismo, indignazione senza senso e convinzione assoluta di superiorità che ci caratterizza. Parlo di cibo eh, ma il discorso si applica a tanti altri ambiti e ognuno faccia appello alla propria coscienza. È più facile essere aperti mentalmente e aver voglia di provare cose nuove quando non si ha una solida cultura gastronomica alle spalle, su questo siamo d’accordo. Ma quanto si perde a stare chiusi nel proprio orticello fatto di polemica su tutto, dai discorsi da bar sulla carbonara ai deliri governativi su grilli e carne “sintetica”.

Chill out man, direbbe il vostro amichevole Spiderman di quartiere. Sei a NYC, la città più stimolante del mondo per cibo e culture gastronomiche. Mangia, prova, goditela. Il bello è che puoi farlo anche a casa tua senza stare lì a cercare il pelo nell’uovo, senza paragoni, senza partiti presi. Sii curioso, assaggia prima di giudicare, leggi prima di commentare. Apri la bocca per mangiare invece di parlare e, per una volta, ascolta.