12 cose che non importerei dai supermercati americani

Ho "vissuto" i supermercati USA per mesi prima di snocciolare 12 elementi da non importare per alcun motivo al mondo, al netto della globalizzazione.

12 cose che non importerei dai supermercati americani

C’è chi ne sogna uno così anche da noi, e chi mente. Il fascino del supermercato americano, gigante, coloratissimo e pieno zeppo di “schifezze” immaginifiche, attira noi europei come falene. Saranno i neon ipnotici, le confezioni sgargianti, i coloranti aggiunti che fanno brillare il cibo. O più semplicemente è merito del capitalismo magico, che crea desideri dettati da tutto tranne che dal bisogno effettivo. Piace così tanto che anche i nostri supermercati stanno cominciando a somigliarvi parecchio. Per fortuna (nostra) non proprio in tutto: oggi vi parlo delle 12 cose che non importerei, da temperature polari a prezzo non tassato, pane, latte, sale e cereali.

Nello stilare questa lista ho cercato di concentrarmi sugli aspetti quotidiani del fare la spesa. Su quelle differenze rispetto a gesti e situazioni che capitano anche a noi almeno una volta a settimana. Ho evitato di proposito gli eccessi, tipo i food deserts e la possibilità in alcuni Walmart di comprare armi e munizioni. Ovvio che cose del genere non sarebbero auspicabili in nessun caso e in nessun luogo, e per questo non le calcolo nemmeno. Soprattutto parlo di supermercato americano medio, ovvero il 90+% sparso su tutto il territorio. Escluse le enclavi metropolitane ricche e miscellanee come NYC e LA, resta un modello dove offerta e qualità si ripetono pressoché uguali a se stesse.

Il concetto di supermercato moderno (grocery store) nasce proprio negli Stati Uniti a cavallo tra anni ‘10 e ‘20 del Novecento, e non è un caso che qui resista il primato del più (grande, fornito, variegato). Per lo stesso motivo non è un caso che i nostri supermercati siano stati costruiti a immagine e somiglianza del prototipo USA. E che più il tempo passa più vi assomigliano: pasti istantanei, varietà di snack e merendine, spesa a domicilio. Ma non tutto, anzi molto poco vale la pena di essere importato. Vi spiego perché attraverso 12 aspetti negativi del supermercato USA.

Temperature polari

Andate a fare la spesa? Portatevi il cappotto. Anzi no, con piumino, pile e giacca a vento dovreste essere a posto. Non importa che sia luglio e che magari vi troviate in Texas o a Las Vegas. L’aria condizionata tipica dell’American way of life è particolarmente killer al supermercato. Complici anche i banchi frigo e freezer apparentemente infiniti che lo attraversano, il freddo percepito può facilmente diventare polare. Quindi siate previdenti: portate sempre qualcosa per coprirvi e scongiurare il temutissimo colpo d’aria (seguito dagli inevitabili e sospetti movimenti altezza viscere).

Frutta e verdura troppo cara

Frutta-supermercato

Lo vedete quello scintillio? Non è un miraggio, è semplicemente il reparto ortofrutta, perfetto e lucidato di gomito neanche fosse di polistirolo. Nonostante l’ampiezza del territorio coltivabile, la meccanicizzazione dei sistemi di raccolta e l’uso abbondante di fertilizzanti e pesticidi, qui frutta e verdura si pagano come se fossero pietre rare.

Ma come è possibile? Intanto bisogna sapere che, nonostante la disponibilità a perdita d’occhio di terra coltivabile, negli Stati Uniti prevalgono due usi principali. Pascoli e monocolture, a loro volta principalmente adibite a foraggio, cereali, usi non alimentari (cotone, mais per carburante). Il discorso è complicato e invito chi volesse approfondire a leggere Il Dilemma dell’Onnivoro di Micheal Pollan, ormai un classico.

Di spazio per orti e frutteti ne rimane ben poco, e quando gli americani si innamorano di una specie (avocado e mandorle fra tutte) la storia si ripete. Coltivazione intensiva, uso spropositato delle risorse, delocalizzazione, impoverimento dei terreni e della forza lavoro. La domanda cresce e il prezzo si alza, a scapito di qualità e soprattutto sostenibilità.

Ma torniamo al nostro supermercato e prendiamo in considerazione una penalità ulteriore. Ovvero l’unità di misura: qui si paga al pound, circa 0,450 kg. Per fare un paragone, immaginate un carrello familiare in cui per mezzo chilo di mele vi partono 3,99$. Mezzo chilo può corrispondere a due mele medie, addirittura una mela grande. Capite adesso perché diventa difficile mangiare sano?

Pane (vero) inesistente

Pane-confezionato

Se siete stati solo a New York City o altre grandi città forse avreste da obiettare. “Ma come, io ho visto i banchi del pane, le paste madri nutrite a mele giapponesi, ma cosa dici?”. Dico la verità, ovvero tutto ciò che esiste al di fuori delle enclavi “progressiste” e “illuminate” di questo grande paese. Perché sì, l’America è gigantesca e vi assicuro che nel 99,99% dei restanti casi il pane è sempre lo stesso: bianco, raffinato, riempito di additivi e imbustato.

L’origine di questa parafilia, non saprei come altro definirla, nasce centodue anni fa con l’invenzione del mitico Wonder Bread. Il pane arricchito del primo dopoguerra era paradossalmente un pane impoverito. Con zuccheri, amidi, vitamine e minerali rigorosamente aggiunti, a discapito di fibre, grassi e proteine naturalmente presenti nel pane integrale. Potrei parlarvi di Veblen e consumo vistoso, della dicotomia bianco=ricco vs nero(integrale)=povero, che naturalmente tempo due generazioni si rovescia rendendo il “pane del contadino” uno status symbol da doppia cifra al chilo. Ma sorvoliamo.

Se questa “meraviglia nutrizionale” poteva avere un minimo di senso cento anni fa, il boom delle decadi successive è inconcepibile. La produzione e commercializzazione del Wonder Bread termina nel 2012: peccato che nel frattempo si siano moltiplicate le imitazioni, fino al nostrano pancarrè e pane in cassetta. Che negli States resiste in scaffali infiniti senza alcuna alternativa che anche soltanto assomigli al pane vero, a meno di farselo in casa naturalmente. Anche qui però ci vuole tempo, voglia, studio, spazio, banalmente un forno. E nel Paese delle contraddizioni molte di queste condizioni sono un lusso che spesso non ci si può permettere.

Formaggi e salumi ultraprocessati

Salumi-formaggi-processati

Dunque il toast, che ci mettiamo dentro? Se in Italia basta andare al banco salumeria-gastronomia, in USA non troverete nessun essere umano a cui rivolgervi. Tutto si concentra in uno o più giganteschi banchi frigo da cui pescare alla meno peggio. Scordatevi prosciutto crudo e formaggio di qualità controllata e certificata.

Nella stragrande maggioranza dei casi il quadro è questo: fette spessissime rosa o giallo intenso, che della “carne” o del “latte” hanno solo un vaghissimo ricordo. Ma che dico, sapore! Dolce, dolciastro, salato, piccantino senza soluzione di continuità, e consistenza fattibile soltanto previa cottura a meno che vogliate mangiare colla. Poi è vero che c’è chi da noi compra ancora le sottilette o chi da “cuoco” non si fa problemi a consigliarle nelle ricette. Già questo dovrebbe farci riflettere (e rabbrividire).

Pochissime le alternative in termini di tipologia: bologna per “mortadella” o qualche coraggioso prosciutto, piuttosto che cheddar, gouda, provolone, parmesan. Chiudo con una carrellata di formati estremi che mai e poi mai vorrei vedere in Italia, sempre che non siano già arrivati. String cheese, stringhette da mordere tipo liquirizia; easy o spray cheese, formaggio in lattina da spruzzare sul pane o direttamente in bocca. Fino agli irriconoscibili lunchables, confezioni già pronte di snack a base cracker-affettato-formaggio di dubbia natura e provenienza.

Il latte

Latte-gallone

La vera sfida nel supermercato americano medio è trovare il latte che sappia di latte. Per estensione anche lo yogurt normale intero è un’utopia, ma concentriamoci su una cosa alla volta. Fra tutti il famigerato latte al gallone (3,78 litri) spicca per anti-palabilità. Il fattore determinante è senza dubbio la confezione in HDPE o polietilene ad alta densità. Questa plastica permette la conservazione del latte pastorizzato a basse temperature fino a 21 giorni, leggera e riciclabile. Peccato che un liquido grasso come il latte ne assorba il “sapore”, regalando sorsi che col tempo sanno sempre più di artificiale.

Tuttavia io non ho scritto “latte al gallone” ma solo “latte”. Perché il problema sta alla radice e riguarda l’alimentazione delle vacche. Tra EFSA (l’agenzia europea della sicurezza alimentare) e FDA (Food and Drug Administration americana) esiste un abisso di approcci diversi che si traduce in gusto, qualità e sicurezza. Negli States infatti si fanno molti meno problemi riguardo l’uso di ormoni e antibiotici nell’allevamento bovino. Un cocktail che, oltre a tutte le possibili implicazioni sulla salute, si “degusta” direttamente nel bicchiere: sapore in serie, acquoso, poco strutturato.

I cereali da colazione

Cereali-supermercato

Chi per la prima volta si trova a fare la spesa in un supermercato USA rimane a bocca aperta in un reparto ben preciso: quello dei cereali da colazione. Ora su questo bisogna dire che, rispetto a qualche anno fa, in Italia ci stiamo avvicinando. Gli scaffali dedicati si sono estesi e diversificati, con opzioni integrali (crusca e fiocchi), cereali “fit”, granola e muesli, glassati e ripieni.

Non è una buona notizia. Perché in quei cereali, e ancora di più quelli americani pieni zeppi di aromi e coloranti, si nascondono montagne di zucchero, sale e grassi idrogenati. E se non ci sogneremmo mai di mangiare sacchetti interi di caramelle o patatine, d’altra parte non ci facciamo problemi a riempire quotidianamente la scodella a colazione. E il discorso vale ancora di più quando ci sono di mezzo i nostri figli.

Insomma, forse non arriviamo agli eccessi americani come cereali con marshmallows o fruit loops coloratissimi che di frutta non hanno neanche l’ombra. Però bisogna essere consapevoli e superare il bias cognitivo che ci porta a percepire questo tipo di alimento “sano”. Sappiate che il discorso vale per tutti i cereali confezionati, anche le linee “healthy”. Facile capire quali evitare: leggere l’etichetta, evitare se troppo lunga, capire bene quali sono gli ingredienti (specie gli zuccheri nascosti). Soprattutto, mangiare responsabilmente.

Il sale

Ogni pasticcere, anche alle prime armi, sa che il sale esalta la dolcezza. L’America dal palato debole per questo gusto lo sa altrettanto bene e su ogni tabella nutrizionale compare ben visibile la voce “sodio”. Perché le quantità qui sono sempre più abbondanti della media e sembra virtualmente impossibile non incappare nel sale fra gli ingredienti aggiunti.

Pensavate di trovarlo solo in merendine, snack, cereali? Pensavate male. Il sale è dappertutto compresi gli insospettabili latte vegetale, yogurt, kefir, bibite e shot energetici. Forse è più ubiquitario dello zucchero ma non è un dato tranquillizzante. Una dieta troppo ricca di sodio può causare diverse complicazioni, dalla più banale ritenzione idrica a ipertensione e malattie cardiovascolari. Se mangiare con poco o senza sale può rivelarsi una buona pratica, questa diventa una vera e propria utopia in the land of the free. Free to rimpinzarsi, farsi venire ancora più fame, bere zucchero e poi magari non avere l’assicurazione sanitaria per tamponare il danno.

High fructose corn syrup

Sciroppo-ciotola

Per quanto riguarda l’alimentazione, il male supremo del Ventunesimo secolo sembra essere l’HFCS. Tradotto suona più o meno come sciroppo di mais dall’alto contenuto di fruttosio, zucchero semplice dall’alto potere dolcificante naturalmente presente nella frutta. Questo prodotto ricavato dall’amido di mais tuttavia ha conseguenze molto diverse da, chessò, una scorpacciata di macedonia.

Intanto perché a differenza della frutta si tratta di calorie fini a se stesse, senza densità nutrizionale quali fibre e vitamine. Diversi studi ne hanno dimostrato gli effetti dannosi sull’organismo, anche peggiori rispetto allo zucchero (saccarosio) che contiene fruttosio e glucosio in parti uguali. L’HFCS invece è composto per il 55% di fruttosio, e il problema è che l’organismo non riesce a metabolizzarlo altrettanto bene. Si trasforma più facilmente in grasso e un consumo eccessivo e/o continuativo può portare a complicazioni epatiche, diabete, aumento di peso e malattie correlate.

Dove sta il problema, basta evitarlo. Buona fortuna: l’HFCS costa poco ed è dappertutto, in primis nella versione USA della Coca Cola. Compare soprattutto in succhi e bibite (energetiche e “diet” comprese) ma anche cereali di cui sopra, barrette, snack, fast food, salse, gelato, panificati, marmellate. LEGGETE L’ETICHETTA.

Ossessione fat-free

Una entry piuttosto frequente dell’high fructose corn syrup è proprio la categoria diet o fat-free. L’ossessione per questo tipo di prodotti è particolarmente forte negli USA, ma nemmeno tanto una novità neanche da noi. Ciò che viene percepito come cibo “sano” è pur sempre industriale e ultra-processato. E quando si “toglie” il grasso, bisogna sempre chiedersi cosa lo sostituisca.

Esempio facile: l’olio di palma, ufficialmente “bannato” a lettere maiuscole su tutte le confezioni di biscotti, merendine e quant’altro. Sì ma cosa c’è al suo posto? Cosa ha escogitato l’industria per continuare a produrre a basso costo e mantenere il profilo organolettico? Queste sono le giuste domande da porsi senza condannare a priori la palma, il burro, il grasso di turno.

La risposta più semplice e immediata nella maggior parte dei casi è: zucchero. Specie negli States i prodotti senza grassi sono grassi in divenire, ovvero zucchero a pioggia difficile da metabolizzare e per questo destinato a trasformarsi in cellule adipose. Spesso appunto sotto forma di HFCS, e siamo al gatto che si morde la coda. Per cui, al netto di gelato o yogurt a latte intero, frollini al burro, cracker all’olio di oliva: sarà meglio accoglierlo questo “grasso” senza ricorrere a sotterfugi che oltre al danno ti beffano pure.

Additivi alimentari

Caramelle-colorate

Notizia delle ultime settimane: la California ha vietato l’uso di 4 additivi alimentari molto comuni nel resto degli States. Si tratta di colorante rosso/rosa, bromato di potassio, olio vegetale bromurato, propilparabene. Pressoché ubiquitari, il loro consumo è stato correlato all’insorgenza di cancro, disturbi neurologici e riproduttivi.

La California sarà pure avanti (comunque la legge non entrerà in vigore fino al 2027) ma il resto del panorama americano non promette bene. Basta leggere le etichette (e tre) per rendersi conto di quanto additivi come addensanti, conservanti, coloranti, aromi, edulcoranti siano onnipresenti. Anche senza leggere: osservate la mania del “seasonal” in sapore ma anche colore (ovvero il “gusto” stagionale tipo pumpkin spice o peppermint) e capirete facilmente la portata del fenomeno.

In Europa abbiamo fior di regolamenti a riguardo e sicuramente siamo più “protetti” da questo punto di vista. Tuttavia l’unico vero cordone di sicurezza è stare alla larga dal cibo ultra-processato. Tutto ciò che è troppo colorato, durevole, performante andrebbe evitato. Perché beh, semplicemente in natura non funziona così.

Il prezzo non tassato

Pagamento-carta-supermercato

Quanti di noi fanno la spesa secondo budget? Capita, specialmente in tempi di inflazione e in Italia lo sappiamo bene. Immaginate di completare la lista con attenzione e poi in cassa ritrovarvi con un prezzo più alto rispetto al calcolo. Questo succede quotidianamente negli States, e non solo al supermercato. Il prezzo indicato in etichetta è infatti before tax, ovvero prima che venga applicata la Sales Tax (generalmente compresa tra 1-11%) il cui pagamento spetta al consumatore finale. Cioè noi.

La Sales Tax viene applicata per beni e servizi. Quindi che sia Amazon, il caffè sotto casa o il parrucchiere, ci si adegua a un sistema che a noi pare semplicemente senza senso. Ok, non è la fine del mondo. Ma il disappunto di fare i calcoli, seguire le offerte, comprare con parsimonia e poi ritrovarsi con un totale superiore al previsto? Non ha prezzo (più IVA ovviamente).

L’imbustatore

Busta-plastica-spesa

In molte aree degli States c’è una categoria di lavoratore che da noi non esiste. Parlo dell’imbustatore o bagger, ovvero l’addetto a imbustare la spesa altrui. Costui, spesso immigrato o minorenne, si posiziona in fondo al terminale di cassa, la cosiddetta bagging area. Oltre a farvi un favore (in teoria) vi toglie la classica ansia che scaturisce dal dover imbustare e pagare allo stesso tempo – il più velocemente possibile sennò chissà come sbuffano gli altri in coda. Ci pensa lui/lei, a voi basta tirar fuori il portafoglio.

Cosa c’è di sbagliato in tutto questo? Beh intanto le paghe da fame, quando non lo sfruttamento. Poi il fatto che non sempre la spesa viene imbustata secondo logica (almeno, la vostra). Infine, dettaglio non trascurabile, il numero spropositato di buste in plastica usate per una singola spesa. Piccolo inciso: le buste americane sono generalmente molto piccole. Per una spesa media, se non provvisti di proprie, ne partono facilmente 4-5. Ma quando le suddette sono in mano al bagger beh, c’è da mettersi le mani nei capelli.

Quando lui/lei ha responsabilità delle groceries altrui ci mette anche due, tre buste per un singolo item, specialmente se pesante. Un esempio classico è il gallone di latte o acqua. A me è capitato quando ancora non possedevo il mio esercito di borse in tela collezionate (anche) a tal proposito. Non è sostenibile, non è neanche logico. E se è vero che non solo la sola (i clienti muniti di tote bag, specie nelle aree urbane, ormai sono la regola) come al solito si parla di bolle, microcosmi di status symbol misti a consapevolezza green che purtroppo non rappresentano percentuale significativa.

Ovviamente il discorso vale anche per noi. È buona pratica munirsi di buste riutilizzabili, o almeno usare più volte quelle del supermercato. Preferite carta o materiali lavabili, e se proprio è arrivato il momento di buttarle date loro la dignità di diventare sacchetti per contenere plastica o indifferenziata. Ci vuole davvero poco: di sicuro senza il bisogno di un imbustatore compulsivo, suo malgrado.