Cucina lucana: i 20 piatti tipici della Basilicata da provare

La cucina lucana è fatta di sapori legati alla terra. Ecco 20 piatti tipici della Basilicata da non perdere, dalla pignata al cugliaccio.

Cucina lucana: i 20 piatti tipici della Basilicata da provare

Rotolando verso sud prima o poi si deve passare in Basilicata e magari fermarsi un po’ per assaggiare un pezzo di cucina lucana, onesta e genuina proprio come lei. Una terra aspra e bellissima, baciata dall’oro del grano e del sole come vuole la leggenda del popolo diretto a sud alla ricerca della Lucania o “terra della luce”, uno spettacolo abbacinante che a pancia piena si apprezza anche di più. Oggi la nostra Basilicata coast to coast si fa attraverso i suoi piatti tipici: strazzata, rafanata, crapiata, ciaudedda, pignata, carchiola, calzoni, lucanica, cugliaccio, scarcedda e molti altri.

Quali sono i fondamentali? Grano duro e dunque tanto pane, in tutte le forme e specialmente quella di Matera; pastorizia e allevamento di suini, ovini e caprini da cui insaccati e latticini; una straordinaria biodiversità di verdure e legumi tra cui spiccano peperone crusco e fagioli da gustare in zuppe, primi e contorni; infine la commistione culturale inter e intra-regionale, in particolare l’apporto delle comunità arbëreshë o italo-albanesi con le proprie ricette, usi e costumi.

In poche parole la cucina lucana è povera e nutriente, colorata e stagionale, piccante e mai noiosa. Ecco quali sono, secondo noi, i 20 piatti tipici della Basilicata da provare.

Strazzata

Strazzata

Il pane in Basilicata è decisamente quotidiano e assume le forme più varie e golose. Cominciamo dalla strazzata, focaccia col buco tipica di Avigliano e dell’Alto Basento caratterizzata dalla forma a ciambella. Non solo: a distinguerla dalle altre focacce c’è la mano pesante di pepe unito all’impasto di farina di grano tenero, semola di grano duro, sale e lievito madre. La strazzata si mangia come si chiama, ovvero “stracciata, strappata” con le mani anziché con il coltello: il suo uso si limita alla divisione del pane in due livelli in modo da poterlo farcire. Dire che la scelta è ampia in Basilicata è decisamente riduttivo: dai formaggi (Caciocavallo podolico, Canestrato di Moliterno, ricotta forte), a prosciutti, salami e salsicce, e poi ciambotta (stufato) di peperoni, zucchine e melanzane tonde, e il tocco di peperoni cruschi che da qui in poi vedremo un po’ dappertutto. Piccola curiosità: con “strazzate” si indicano anche dei biscottini materani tipo brutti ma buoni a base di mandorle e cacao.

La strazzata però non è l’unico panino da provare: insieme a lei troviamo la fucuazza, specialità molto simile alla focaccia barese. Bassa e croccante, viene cotta in teglia e condita cu la prmmarora, tanta salsa di pomodoro, origano e olio extravergine.

Cialledda, acquasale e pane cotto

panzanella

Di nuovo pane, stavolta “cunzato” o letteralmente annegato nei condimenti. Partiamo con cialledda e acquasale, piatti unici freddi presi in prestito o scambiati (è venuto prima l’uovo o la gallina?) con la vicina Puglia. La vera differenza sta nella base: mentre l’acquasale si “accontenta” delle friselle croccanti, la cialledda si avvale del pane raffermo. Stesso discorso per il pane cotto, minestra a base di pane, uova, peperoncino e verdure, su tutte le cime di rapa. Per quanto riguarda i topping dei piatti freddi spicca l’olio extravergine, seguito a ruota da pomodori freschi, cetrioli e cipolle. Da provare la ricetta con fave sp’nzal e uova, delizia primaverile con fave sgranate, cipollotto e uova sode che fa onore al ruolo di “colazione del bracciante” alle origini della cialledda.

Ma torniamo al topic pane raffermo. In questo caso il candidato ideale è il Pane di Matera Igp, eccellenza della panificazione meridionale tutta insieme al pugliese Pane di Altamura e al siciliano Pane nero di Castelvetrano. Vale la pena aprire un piccolo focus su questa antica preparazione: la pagnotta materana ha forma a cornetto oppure alta (più compatta con “baciature” ai fianchi), crosta marrone scuro croccante e mollica alveolata di colore giallo ocra. La sua preparazione assomiglia più a un’arte che a una ricetta: dalla selezione di grano duro varietà Cappelli a quella del lievito naturale, tradizionalmente ottenuto da fermentazione di albicocche; dalla lievitazione, doppia e a tempi lunghi, all’infornatura alimentata da frasche di olivo e quercia. E poi il ruolo sociale del pane che un tempo scandiva i ruoli di genere: da una parte le donne addette all’impasto, dall’altra gli uomini che nei forni collettivi si occupavano di cottura, incisione e marchiatura delle forme per il riconoscimento. Il pane lucano è insomma alla base di tante piramidi, in primis quella alimentare ma anche sociale e culturale come dimostrano i numerosi detti a esso dedicati: “Bone so ‘li ffiche e pure li cerase, ma trist’a quera panza ca pane nun ge trase”, buoni sono i fichi e anche le ciliegie, ma triste è quella pancia in cui il pane non entra.

Carchiola

flat-bread

L’unica eccezione all’imperante cultura della farina di semola sembra essere la carchiola, focaccia non lievitata a base di semola di mais. Il pane azzimo di Avigliano era storicamente considerato “pane dei poveri”: da una parte per il costo minore della materia prima, dall’altra per il risparmio di tempo nella sua preparazione, infine il metodo di cottura semplicissimo che non aveva bisogno di passare per i forni comuni e per la tassa che il loro uso comportava. L’impasto sottile di acqua bollente e farina di mais era cotto direttamente sulla brace mediante la r’ticula, griglia circolare con perno centrale che permetteva di cuocere la carchiola senza spostarla dal fuoco. Il nome stesso carchiola deriva dal latino carchesium, coppa di metallo con cui in origine si ricopriva la griglia per permettere una cottura più uniforme. Da pasto umile di contadini, oggi la focaccia azzima è Prodotto Agroalimentare Tradizionale e Arca del Gusto Slow Food, nonché versatile cibo da strada. Due i modi per gustarla: a passeggio con farcitura di salumi, formaggi e verdure; oppure al modo tradizionale, sposata a zuppe e minestre con fagioli, verza, cicoria, rapa e patate.

Rafanata

frittata

La frittata alta lucana ha un ingrediente segreto: il rafano, radice piccante di origine normanna anche detta “u tartuf’ d’i povr’òmm” o tartufo dei poveri. Badate bene, il rafano spunta in più occasioni nella cucina lucana come polpette, pasta e via dicendo, ma della rafanata è decisamente il protagonista. Tipica della Val d’Agri, la rafanata non si cuoce in padella: essa richiede cotture decisamente più hardcore come forno e brace. La miscela di base prevede rafano, uova e pecorino con opzionale aggiunta di patate, salsiccia e mollica di pane. Questa viene amalgamata e versata nel coccio in terracotta, quindi posta sulla brace in modalità fuc sott e fuc sop, cottura uniforme sopra e sotto. La rafanata è tradizionalmente legata al Carnevale (soprattutto per questioni di stagionalità della materia prima) ma diciamoci la verità, chi non apprezza una bella frittata fumante e saporita in qualsiasi momento dell’anno?

Calzoni

calzone farcito

Trascendere l’intero menu con la pasta ripiena? Fatto, con il pastizz o falagone o semplicemente calzone ripieno lucano. L’esemplare più famoso è senza dubbio u’ pastizz ‘rtunnar, Arca del Gusto Slow Food tipico di Rotondella in provincia di Matera. La sua produzione è legata a doppio filo a quella del maiale: per tradizione infatti viene preparato in occasione del macello, della Pasqua (è risorto!) e della festa patronale di Santa Maria di Anglona agli inizi di settembre. Ha forma a mezzaluna, sfoglia di grano duro e ripieno di carne di maiale, spezzettata e amalgamata a uova, prezzemolo, olio e formaggio. Il pastizz o calzone inteso come street food ha chiaramente molteplici possibilità: le regionali più gettonate sono erbette, ricotta dolce e salata, salame lucano, patate e cipolle, bietole e peperoncino.

Altre varianti si ritrovano in tutte le portate: fra i primi piatti abbiamo i cauzunciedd, ravioli di ricotta e cannella, mentre per dessert ci sono i calzoncelli, specialità condivisa con il Cilento tipica del periodo natalizio. A differenza dei cugini campani, i fagottini fritti lucani hanno forma di ravioli rettangolari e sono farciti esclusivamente con crema di castagne. Infine ricordiamo i falagoni pasquali, mezzelune di sfoglia ripiene di ricotta ovina e caprina, menta e liquore.

Lucanica

salsiccia

Non c’è piatto più tipico di un aggettivo da mangiare, soprattutto se siamo nell’antica Lucania e c’è di mezzo il maiale. La lucanica o salsiccia lucana si è attribuita essa stessa l’identità geografica, portata fieramente fin dall’epoca romana. A questo proposito, un paio di citazioni dotte. La prima di Marco Terenzio Varrone risale al I secolo AC: nel suo De lingua latina, l’autore afferma: “Chiamiamo lucanica una carne tritata, insaccata in un budello, perché i nostri soldati hanno appreso il modo di prepararla dai lucani”. Poi c’è l’illustre Apicio, che nel suo De re coquinaria del I secolo DC ci fornisce una prima bozza di ricetta: “Si trita pepe, comino, peverella, ruta, prezzemolo, spezierie dolci, coccole di lauro, salsa d’Apicio; e si mescola il tutto con polpa sminuzzata, pestando poi di nuovo il composto insieme con salsa, pepe intero, molto grasso e finocchi. Insacca poi il tutto in un budello allungandolo quanto è possibile. E così si sospenda al fumo”.

Ma veniamo al presente. La Lucanica di Picerno Igp è tutta maiale, dal ripieno al budello naturale: ha tipica forma a U, consistenza morbida e compatta e aroma di peperone e finocchio selvatico. Discorso simile per la lucanica di Cancellara, stavolta caratterizzata dalla disposizione penzolante a catena. Entrambe possono essere utilizzate tal quali per stuzzicare all’aperitivo, oppure in sughi e minestre. Altri insaccati di rilievo sono il salame pezzente o Pezzente della montagna materana, Presidio Slow Food usatissimo nella ricetta di pasta fresca ferrett’ cù pezzent’ e rafano, e soperzata di Rivello, soppressata di prima scelta tradizionalmente conservata in terracotta.

Manate

pasta-fresca-mani

Quelle in foto rendono l’idea e soprattutto servono per dar forma alle manate, pasta fresca a formato lungo tipica lucana. L’impasto di sole acqua e semola di grano duro si arrotola ad anello, poi a matassa e infine a pezzi grossolani tipo pici. Le manate si prestano a una serie di condimenti diversi: peperoni cruschi, mollica di pane, cime di rapa, ceci, fagioli. I legumi sono la simbiosi elettiva anche per le lagane, tagliatelle larghe nonché antenate ancora in vita delle lasagne condivise con la vicina Calabria nella celebre ricetta lagane e ciceri, lagane e ceci. Infine ricordiamo i minuich, spaghettini bucati realizzati con bastoncini di saggina intorno a cui vengono avvolti: come i più grandi e spessi bucatini, anche i minuich si sposano benissimo con pomodoro, guanciale e pecorino.

Tumacë me tulë

Tumace_me_tule

La Basilicata, come altre regioni al centro e sud Italia, ospita cinque comunità arbëreshë corrispondenti ai comuni di Barile, Ginestra, Maschito, San Costantino Albanese e San Paolo Albanese. Gli arbëreshë sono una minoranza etno-linguistica albanese stabilitasi in Italia fra il XV e XVIII secolo in seguito alla morte dell’eroe nazionale Scanderberg e alla conseguente minaccia della dominazione turco-ottomana. Con sé, oltre a lingua, cultura e tradizioni, ha portato tante ricette tipiche. Fra i primi piatti spiccano le tumacë me tulë, letteralmente tagliatelle con la mollica che tanto ricordano la pasta ca muddica calabrese. Oltre al pane grattugiato e fritto, il condimento prevede salsa di pomodoro, filetti di alici, aglio e prezzemolo. Altre varianti spesso comprendono i legumi: è il caso delle tumacë me fasule (con fagioli) e tumacë me qiqra (con ceci).

Rimaniamo nell’Arbëria lucana con le shëtridhlat, tagliatelle realizzate esclusivamente a mano e per questo registrate nell’Arca del Gusto Slow Food. L’impasto a base di farina carosella, semola, acqua calda e olio extravergine viene lavorato a filo continuo: il segreto (ma anche l’abilità e la difficoltà) è che non deve essere mai spezzato, ma arrotolato come su se stesso come un gomitolo fino a farlo diventare sempre più sottile. Le shëtridhlat vengono tradizionalmente condite con olio e fagioli poverelli, i Dop di Rotonda piccoli, bianchi e rotondi.

Ragù alla potentina

cavatelli alla lucana

Il ragù rosso alla potentina si fa masticare, e che bocconi! Questo sugo tipico per la pasta è infatti caratterizzato dagli ‘ntruppicc, i cosiddetti “intoppi” costituiti da pezzetti non sminuzzati di carne. Agnello, pecora, maiale, vitello, poco importa: qualunque essa sia, guai a tritarla, giusto il taglio al coltello. Altro elemento imprescindibile è il salame pezzente di cui sopra, fatto rosolare con la carne in aglio e olio e lasciato sobbollire in salsa di pomodoro per alcune ore. Il tocco finale per questo ragù arrabbiato è il “forte”, ovvero l’aggiunta finale di peperoncino fritto e, volendo, una grattugiata di rafano fresco. Non ci resta che augurarvi una buona digestione!

Baccalà all’aviglianese

Baccalà_Avigliano

Di modi per cucinare il baccalà ne abbiamo visti, ma il metodo di Avigliano ci mancava. Il merito del suo sapore inconfondibile va al peperone crusco aka peperone di Senise Igp essiccato naturalmente all’aria. Le piccole dimensioni, la polpa sottile e il basso contenuto di acqua lo rendono ideale per il processo trasformativo da ortaggio saporito a snack croccante e assolutamente addictive. I peperoni vengono appesi con ago e filo – e immaginiamo tanta pazienza – in lunghe serte o collane esposte indirettamente al sole. A disidratazione completa vengono passati in forno per eliminare ulteriori tracce di umidità e acquisire la croccantezza che li contraddistingue. Previa molitura è possibile ottenere una polvere finissima, in dialetto zafran (zafferano, per colore e consistenza) usata soprattutto come aroma per salumi, pastasciutte, uova e focacce. Ma torniamo alla ricetta: dopo aver dissalato e bollito il baccalà, i peperoni cruschi interi si fanno rosolare in padella con aglio e olio per pochi minuti, oseremmo dire secondi. Il contenuto sfrigolante della padella si versa direttamente sul pesce e rifinito con un battuto di aglio, prezzemolo e peperoncino fresco.

Anguilla di pantano

le antiche sere

Ok, il nome non è esattamente allettante ma vi assicuriamo che l’anguilla di pantano ha tutte le carte in regola per un signor secondo piatto. Forse vi sarete accorti che gran parte della Basilicata è costituita dall’entroterra, fatta eccezione per un respiro ionico e uno tirrenico nei due lati a sud della regione. Per questo motivo troviamo una vasta maggioranza di piatti di carne a scapito del pesce, che spesso giunge sotto forma conservata (vedi baccalà) oppure tramite vie fluviali. E dunque l’anguilla interpretata alla mediterranea nonostante il “pantano”: tagliata a pezzettoni e cotta in padella con pomodoro, peperoncino, menta e alloro. Essa compare anche nella cipuddata lucana, zuppa invernale e natalizia di porri e baccalà condita con olio e peperoncino.

Pignata

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Oltre al maiale, la protagonista indiscussa della tavola lucana è la carne ovina di pecora, agnello e castrato. Per cuocerla al meglio serve la pignata o pigneti: il nome indica il contenitore, ovvero l’anfora di terracotta a due manici smaltata all’interno in cui viene inserita la carne con i suoi odori. L’unica area non smaltata è quella più in alto intorno al collo in modo che, nonostante la chiusura con coperchio (di solito un disco di pasta di pane o argilla), il passaggio di aria permetta il rilascio dei succhi. La pignata pastorale veniva impiegata in particolare in caso di morte accidentale dell’animale: a cur amar fisk’l jer scit la spic n’gonn (a quel povero animale è finita la spiga in gola) si usava dire intendendo il soffocamento da reste ruvide del grano, ma non erano infrequenti attacchi di lupi, cadute nei burroni, malattie e altre tragiche evenienze. Il lato positivo (per così dire) finiva in pignata, previa “bonificazione” delle carni mediante immersione in acqua fredda e aceto.

Oggi, a parte la materia prima si spera di qualità e da allevamenti certificati, in fondo non ci sono grandi differenze. La pignata si prepara con pecora o agnellone a pezzi, patate e pomodorini ma anche funghi, tuberi e cipolline selvatiche. A condirla un filo d’olio, peperoncino, prezzemolo, alloro e finocchietto selvatico, il tutto ben annaffiato di acqua. L’anfora chiusa si poggia nel camino in disparte rispetto alle braci ma abbastanza vicino da assorbirne il calore, e ivi lasciata per qualche ora fino a carne tenera e brodo ristretto. Ricordiamo infine che la pignata lucana è utilizzatissima anche in versione vegetariana per cuocere i legumi.

Cutturiddi

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Il cutturiddi è lo spezzatino di agnello in umido stavolta cotto in casseruola insieme a pomodoro, sedano, cipolla, lauro e rosmarino. Nome e ricetta ricordano molto la pecora alla cottora della cucina abruzzese, con cui in effetti condivide parte degli ingredienti e, almeno in origine, il pentolone o tegame sospeso su fuoco vivo. Come tante altre ricette a base di agnello, il cutturiddi è tipico del periodo pasquale: nella stessa occasione si prepara il vr’detto, che tanti non esiterebbero a scambiare per uno degli enne modi in cui viene indicato il brodetto di pesce adriatico (compresi i molisani con il loro ‘u vredette termolese, ma questa è un’altra storia). E invece no, il “brodetto” lucano è una vera sorpresa, altro che uovo di Pasqua: si tratta di uno stufato di agnello agli asparagi con cicoria, uova e finocchietto selvatico.

Crapiata

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La crapiata di Matera o crapiet è una zuppa di legumi e cereali estiva, preparata tradizionalmente il 1 di agosto in occasione della festa di fine raccolto. Apriamo una parentesi sulla straordinaria biodiversità che le terre lucane offrono per la gioia di vegani e vegetariani: abbiamo già citato il Fagiolo Bianco di Rotonda Dop, seguito a ruota dal Fagiolo di Sarconi Igp di varietà cannellino e borlotto. Da Slow Food poi apprendiamo il recupero di specie a edizione limitata come il Fagiolo rosso scritto del Pantano di Pignola da abbinare a minestre, carne e verdure. A questi nella crapiata si aggiungono farro, grano, ceci, cicerchie, piselli, fave e lenticchie su una base canonica di sedano carota e cipolla per il brodo più patate novelle, aglio, pomodorini e martella (spezia simile alla mentuccia) per insaporire. Legumi e granaglie vengono messi a bagno per almeno 24 ore, cotti per 4-5 ore e serviti freddi con un filo d’olio extravergine. Simile alla crapiata la rappasciona di Viggianello, in cui però cambiano drasticamente le modalità di consumo: si tratta infatti di una zuppa invernale del buon auspicio legata al Capodanno e preparata con fagioli bianchi, mais, grano e peperone crusco.

Lampascioni

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I lampascioni o cipolle selvatiche sono un ingrediente imprescindibile della cucina lucana e, come abbiamo già visto, di quella pugliese. Si tratta di bulbi selvatici della famiglia delle Liliaceae (la stessa di aglio e cipolla) dal sapore amarognolo e aromatico e, cosa assai importante, caratterizzati da ampio spazio di manovra in cucina. Quali sono le ricette tipiche? In insalata con uova e salsiccia, appena scottati in padella e profumati di prezzemolo e peperoncino; in umido con aglio, olio e pomodorini, guest star la salsiccia; nella frittata con pecorino; e ancora fritti, al forno, alla brace, in padella.

Ciaudedda

Sembra di stare sui colli romani, e invece ci troviamo sotto il sole dell’Appennino lucano. Nonostante ciò, non possiamo fare a meno di associare la ciaudedda con la vignarola, lo stufato di verdure primaverili tipico del Lazio. Del resto, l’anima profondamente contadina e gli ingredienti di base del piatto sono praticamente gli stessi: carciofi, fave, cipolle, patate e pancetta. Più, nel caso lucano, le oscillazioni stagionali che possono includere melanzane, pomodori e peperoni; e le modalità di cottura, con le verdure ora più asciutte a mo’ di contorno, ora più brodose su base di pane per una zuppa corroborante dal sapore invernale. Ciaudedda per tutti i gusti e per tutte le stagioni: il messaggio importante è “Mangia la verdura che ti fa bene”!

Spumette, nocetti, scorzette

brutti ma buoni senza glutine

Il capitolo dolci si apre con una serie di biscottini da ora del tè raggruppati dal vezzeggiativo ma non solo. Tutti infatti hanno in comune la frutta secca: le spumette o spumini di Cersosimo, biscotti morbidi a base di mandorle tritate; le scorzette di Bernalda preparate con albume, zucchero e nocciole con copertura al cioccolato fondente; i nocetti di Maratea con uova, zucchero e noci e una striscia di glassa al limone. Ancora non vi basta? Ricordiamo nuovamente le strazzate di Matera a base di mandorle da non confondere con la focaccia, e le stozze, biscotti secchi alle mandorle simili ai cantuccini toscani.

Cugliaccio

dolce-pasqua

Uno sguardo a volte vale più di mille parole… sì, ma anche un dolce come dimostra questo elaboratissimo lievitato arbëreshë di San Costantino Albanese legato alle feste pasquali e nuziali. Il cugliaccio (in albanese kulac) è il pane dolce simbolo del cambiamento e della transizione. Partiamo dall’impasto, preparazione semplice di farina, strutto, olio e finocchietto: in occasione del matrimonio viene intrecciato in senso circolare con quattro braccia a rappresentare il legame indissolubile. Al suo interno vengono “nascoste” le uova, a loro volta simbolo di vita e Resurrezione – attenzione a metterle dispari, altrimenti sono guai. Ancora più interessante però è quello che si trova sopra al pane: le decorazioni in pasta tipiche del cugliaccio nuziale sono costituite da un nido centrale (la nuova famiglia), due uccelli (i suoceri) e due serpenti (gli sposi dispiaciuti per l’abbandono dei genitori). Nel corso della cerimonia in teoria tutto si capovolge, con gli sposi che diventano gli uccelli e i serpenti che rappresentano il male (ma quelli non erano i parenti?).

Comunque sia, preparazione e consumo del cugliaccio arbëreshë hanno significati simbolici e rituali rappresentando al contempo dinamiche familiari, status sociale e ciclo della vita. Altri dolci tipici arbëreshë meno “impegnativi” almeno dal punto di vista della comprensione sono kanarikuj o gnocchi bagnati nel miele e nucia, dolce antropomorfo con un uovo a raffigurare il viso.

Scarcedda

Casatiello napoletano - prima del forno

La Pasqua lucana non è tale senza la scarcedda o picciddata, pane dolce di pasta intrecciata con protagoniste le uova sode incastonate nell’impasto. La base è una pasta frolla farcita di ricotta, peraltro la stessa del suo omonimo salato simile al casatiello napoletano. Due parole sulla scarcedda salata: un po’ casatiello, un po’ pizza di Pasqua, il rustico della domenica ha ripieno di uova, toma, formaggio fresco, ricotta, pecorino, salsiccia lucana. Mentre la scenografica versione dolce viene tradizionalmente scambiata come dono (a seconda del suo destinatario assume forma di cestino, galletto, bambolina, colomba), la scarcedda salata è più chill-out e si accontenta del suo momento di gloria a colazione. Torniamo al buon auspicio: le uova imprigionate (sempre dispari per garantirne le virtù propiziatrici) vengono tinte di rosso, colore presumibilmente in grado di distruggere ogni influsso malefico. Insomma tra cugliaccio e scarcedda siamo in una botte di ferro.

Torta di ricotta

Canestrato di moliterno, ricotta forte, pecorino, cacioricotta… con tutto questo ben di dio ovino e caprino vi sorprende così tanto che uno dolci più gettonati in Basilicata sia a base di formaggio? La torta di ricotta è un must lucano da non perdere in tutte le sue varianti: crostata, ciambella, pie e le due specialità pasquali falagone (calzone) alla ricotta epasticcio” ripieno di uova, zucchero e ricotta dolce. Ma qual è il prototipo del dolce alla ricotta tipico lucano? Di norma si intende una torta farcita con base di farina, uovo, zucchero e una punta di liquore ripieno di ricotta dolce aromatizzata agli agrumi. Fresca e deliziosa, è perfetta per controbilanciare i sapori forti e piccanti che costellano la cucina lucana.